Indie

(scritto per il NaNoWriMo 2011)

Questo “racconto” è stato scritto per partecipare al NaNoWriMo nel novembre 2011.

cito http://www.wordinprogress.it (all’epoca della pubblicazione attivo)

Ma cos’è il NaNoWriMo? E’ una full immersion di scrittura creativa, che come tutte le cose geniali è di una semplicità rudimentale: l’obiettivo è quello di scrivere un romanzo di almeno 50.000 parole tra le 00:01 del primo novembre fino alle 23:59:59 del 30 novembre di ogni anno“.

Non si vince nulla, solo il fatto di avercela fatta. Alla fine ti danno un certificato:

certificato1

Quei pochi che hanno letto “Indie” (si legge [indì]) mi hanno detto che il racconto sembra proprio autobiografico. Non è così, ma forse “Indie” è la parte di me che non è mai esistita che, prima di scrivere, non conoscevo.

Commentate se vi va, se ne volete una copia in pdf si può scaricare da questo link

Indice

 

Introduzione

Luci basse, la chitarra sulle ginocchia, Indie aprì il tappo girevole della cera d’api e diede inizio alla procedura di pulizia dello strumento. Un panno di lino e una goccia di cera d’api. Cominciò a strofinare lentamente partendo dalla cassa armonica, nella parte destra dell’attaccatura delle corde al ponticello fino ad arrivare alla zona del battipenna per poi risalire lentamente sul manico fino alla zona delle meccaniche. Poi riscese giù per il manico scorrendo dal mi basso fino ad arrivare alla parte alta della cassa armonica. Tutto molto lentamente come una carezza su quello strumento tanto amato che gli provocava amore, odio, passione e rifiuto, ma che tanto senso dava alla sua vita. “L’unica donna in grado di non tradirti” pensava sempre Indie riguardo alla sua chitarra. Una meraviglia di natura e tecnologia di colore nero come la sua anima, con le corde di nylon perché “classica è la vita di chi non suona da così tanto tempo” diceva. Indie si preparava all’evento con la stessa grazia e smania di una ragazza nel giorno del suo matrimonio. Cercò di curare ogni singolo dettaglio nella sua pulizia che durò un tempo indefinito e poi ripose la chitarra nel suo soft case comprato a Modena tanti anni prima.

Salerno quel mattino era raggiante come quasi sempre durante l’anno. Il sole illuminava le coste e pettinava gli alberi del lungomare. Il centro storico si svegliava ed iniziava il suo cantico tra i vicoli pregni di storia e passioni forti. Il traffico si faceva via via più intenso ed il profumo di caffè si levava dalle finestrine delle signore di via Tasso. Le fontane a ridosso del complesso di Santa Sofia versavano acque gelide in un Novembre colorato che preannunciava un periodo natalizio sole e cielo, luci e regali.

Si alzò dalla sedia e si diresse verso i fornelli per preparare un caffè alla vecchia maniera. Spostò lievemente la tendina della finestra per dare uno sguardo veloce fuori e capire che aria tirava. Il mare di Salerno, visto attraverso i vetri del suo appartamento, gli sembrava limpido e felice di esserre piatto e calmo. Il vento, mai assente, sfiorava l’acqua in senso inverso alla corrente portando il freddo nord verso un caloroso sud ed un presagio di peggioramento tipico delle giornate calde in inverno. La città rappresentava una buona fetta delle radici di Indie e le strade erano come le sue gambe. Adorava percorrerle in ogni modo, a piedi, in motorino od in macchina. Adorava essere e sentirsi parte di quel luogo dell’Italia del ventunesimo secolo. Adorava essere meridionale, sudista dall’aspetto normanno. Una mistura che calzava perfettamente le sue idee di villaggio globale, di unione e condivisione delle culture e dei colori, dell’indipendenza di pensiero, culto e letteratura e del rispetto reciproco delle opinioni. Indie viveva in un suo mondo colorato che portava con se senza nemmeno rendersene particolarmente conto. Del resto la città lo permetteva. Salerno era piena di persone reali, indipendenti, artisti, musicisti, filosofi e dottori di ogni genere. Era la città ideale per lui. Era una delle roccaforti della regione campania in cui era difficile sentir parlare di pericolosità urbana. Indie viveva la sua città addosso e la indossava come il suo bel cappotto della domenica. Indie era la sua città ed in particolare il suo centro storico. Indie suonava spesso la sua città, improvvisando per lei accordi di ogni genere e forma. A volta banali triadi a volte accordi complessi di 4 oppure 5 note ed a volte addirittura dei polychords, proprio a rappresentare le contraddizioni del territorio. Indie amava descrivere la sua città come un’improvvisazione organizzata. Un assolo a spartito, bello come quello di Time o Another Brick in the Wall dei Pink Floyd. Un assolo che se lo vuoi ripetere lo devi per forza suonare per intero come è stato fatto nella sua versione originale.

Era autunno e quell’anno le piogge tardavano ad arrivare. Peccato perché per Indie e non solo per lui, il grigiore delle nuvole misto ai colori dell’autunno rappresentava una fonte quasi inesauribile di ispirazione. Diceva a volte tra se: “se questo tempo continua così finirò a scrivere brani per balli di gruppo latino americani” e rideva da solo come solo un imbecille sa fare. Si, la sua ispirazione era senza dubbio guidata più da una giornata di pioggia che dal sole e questo gli rendeva la vita più pura e reale. Quelli erano giorni importantissimi, caldi e soleggiati, ma importantissimi per Indie e per chi in qualche modo lo seguiva. Erano i giorni in cui sarebbero state dette delle grandi cose, si sarebbe ascoltata della buona musica e si sarebbero provate delle nuove emozioni. Erano giorni in cui Indie si sarebbe calato in nuove esperienze sensoriali e ne avrebbe trasmesse al mondo. Doveva prepararsi per bene psicologicamente agli eventi e partire da un buon caffè dopo aver pulito la chitarra era un’ottima cosa. La colazione che seguiva il caffè, la sua seconda “prima colazione” era fondamentale e seguiva una procedura sempre uguale. Nulla di eccezionale per intederci, ma era fatta di passi precisi quasi come un algoritmo. Prendeva la tovaglia dal cassetto di fianco al cestone scegliendo quella di cotone oppure quella in plastica a seconda se avesse deciso di mangiare la marmellata oppure no. Quella mattina voleva la marmellata. Prendeva poi un tovagliolo, un cucchiaino ed un coltello per spalmare, un piatto ed una quantità di biscotti da far gola ad Alice, si “quella delle meraviglie” come la chiamava lui. Poi prendeva l’orzo caffè solubile e ne metteva due cucchiaini in una tazza abbastanza grande, versava dell’acqua, assolutamente minerale naturale e poi 2 minuti al microonde ed il gioco era fatto. Orzo caffè e non latte. Questa era la sua seconda prima colazione dopo il caffè. La giusta carica di caffeina per affrontare qualunque giornata. Fece colazione e si vestì “cospargendosi di colla e lanciandosi nella cabina armadio” senza avere cura come sempre del suo aspetto esteriore. Ricordava sempre una frase di Bob Geldof che in risposta alla fatidica domanda: “quali sono i vantaggi di essere una rock star?” rispose “che puoi entrare nei migliori ristoranti con un jeans ed una maglietta”. Aveva preso questa cosa un pò come una scusa per uscire dai canoni della società ed un pò come una sorta di regola di vita che seguiva senza problemi e con una certa precisione ed assiduità. Vestito come solo un cane sa fare recuperò il suo smartphone e si incamminò fuori di casa. L’appuntamento con il suo impegno era nel pomeriggio per cui decise di uscire con calma e guardarsi un pò in giro. Salerno era perfetta per chi voleva soltanto guardarsi in giro. Offriva ogni genere di nullafacenza a poco prezzo ed Indie era cintura nera in queste cose quando stava così. Soprattutto il suo stato di ansia per la prestazione della sera veniva come dire attutito da una così bella giornata di sole. Poi c’era il mare di fronte. Quel mare a cui poter affidare tutte le paure del mondo. Quel mare che aveva cresciuto lui e tutti gli artisti della città. Quel mare che era stato sempre buono con lui e che riusciva ad ascoltarlo come una madre silenziosa ascolta il suo figlio adorato suonare. Il mare era sua madre. Ed il vento che accarezzava sua madre era così di conforto che quasi lo proteggeva. Il vento decideva la direzione delle cose, il vento era suo padre. Indie figlio di mare e vento adorava immergersi nelle bellezze di quel territorio sentendosene fiero ed orgoglioso come se fosse lui l’artefice di tanta arte e bellezza. Si, in realtà, tutti sono artefici della propria città. Tutti ne fanno parte e la città appartiene un po’ a tutti, almeno a quelli che la rispettano in quanto tale. Indie la rispettava e se ne sentiva parte. Avvertiva la sua appartenenza alla città come un cane al suo padrone e come tale doveva necessariamente rendere le sue giornate più belle, serene e felici come ogni cane sa fare col il suo padrone. Conosceva molto bene le strade del centro storico ed una volta superate arrivava alla fine del quartiere di Santa Lucia e si dirigeva verso il lungomare.

Indie allungava sempre però per immergersi in quel toccasana che è camminare al centro storico della città. Immergere il proprio cervello nei rumori, nelle voci e nei profumi di un mattino di novembre rende felici e riposati tutti, senza distinzioni di umore ed ansia personale. Era un toccasana per Indie perché sapeva cosa lo stesse aspettando nei giorni a venire e fare una ricca carica di adrenalina e aria pulita era perfetto. Incontrò Matteo con le sue caldarroste e gli chiese come andava “Allora Mattè, che si dice stamattina?” “Non puoi capire come sto incazzato” ed Indie: “perché che è stato?” “Te lo ricordi a Iram? si?” e lui:”e certo che me lo ricordo che t’ha fatto?” e Matteo:”che m’ha fatto? e mo te lo dico io che m’ha fatto! L’altro giorno mi chiese in prestito la batteria perché dice che teneva una serata..” ed Indie lo interruppe subito :”non mi dire!!!!” e Matteo continuò ” eh non ti dico. insomma io ci pensai un attimo, perché dissi -ma questo serate non ne fa più da tempo-, ma sai come è qua al centro storico un po’ ci fidiamo della gente che conosciamo e gliel’ho prestata.” ed Indie “non oso immaginare il poi..” e Matteo: “esatt, non lo immaginare, l’altro giorno passo da Musicbeat e che ti trovo? La mia batteria in vetrina!! Ma tu ti rendi conto? quello si stava vendendo la mia batteria!!hai capito che delinquente?” Ed Indie “che ci vuoi fare mattè.. starà in difficoltà e se n’approfitta della gente per bene comme a tte!” e Matteo “ee magari la pensassero tutti comme a tte Indie.. questo mondo sarebbe più bello.. comunque non ci penso e non succederà più -a vuò na castagna?-” ed Indie che odiava le castagne disse: “no matteo, grazie a chest’ora no!” e si congedò. Questo genere di incontri e di conversazioni narravano Salerno, narravano la sua città e ne disegnavano un profilo meraviglioso fatto di personaggi che sembrano non avere età. Così come non sembrava avere età la signora che abitava a piano terra e spacciava il fumo a circa ottanta anni. Chi diceva che vendeva la droga? Nessuno, soltanto il via vai di ragazzi di ogni genere e razza con i motorini che entravano, stavano pochi secondi ed uscivano dalla porticina guardandosi intorno. Fece il giro lungo perché la tensione da scaricare era tanta e giunse fino a piazza sedile del campo. Guardò con immensa nostalgia la porta del Alcool Cafè e ricordò le ore passate al bancone a chiacchierare con lo Squalo e Dona. Pensò che la vita a volte sa sorprenderti davvero e se ne rammaricò. Luca era una garanzia, se volevi bere lui era come l’angelo della morte. Sapeva esattamente accompagnarti dove dovevi andare segnalandoti con precisione la quantità e la qualità dell’alcool che dovevi ingerire. “Che Dio lo tenga con sè nella cantina dei biondi santi!” Diede uno sguardo veloce alla fontana del Vanvitelli ed una rapida controllata alla conformazione dei locali intorno. Cambiavano gestione ogni cinque minuti e gli sembrava che stessero giocando ai quattro cantoni. Allungò ancora il suo cammino prima del lungomare e si infilò per via Portacatena. Adorava quella zona.

Lo faceva sentire meglio, adorava salutare le persone per strada, quella vecchia nobile e romantica abitudine di salutare una persona soltanto perché incrocia il tuo cammino lo rendeva felice e civilmente appagato. Raggiunse via Indipendenza e attraversò verso il Teatro Verdi e poi si infilò nella rinnovata Villa Comunale. Un piccolo gioiellino che le ultime amministrazioni avevano curato e rinominato il Giardino Incantato. L’inevitabile chiosco con la granita al limone trionfava da millenni all’ingresso e gli dava la garanzia che nulla è cambiato e nulla cambierà. Superò velocemente la quantità innumerevole di piante arrivate da ogni parte del mondo ed uscì dall’altra porta, quella che portava verso il lungomare e quindi il suo paesaggio preferito. Si lanciò sulla spiaggetta di Santa Teresa ed il camminare sulla sabbia lo fece sentire meglio. Scaricare camminando è una cosa bellissima, ma poi sulla sabbia non c’è paragone. Si tolse le scarpe per avvertire meglio il contatto con la terra. Qualche gabbiano volò via e qualcun altro si fidò di lui. Si avvicinò al mare e gli diede il suo buongiorno autunnale. “Se non fosse per te che dai da bere a questa città non so come farei” pensò rivolgendosi al mare.”Se non fosse per te che mi dai forza, che ascolti le mie bestemmie, le mie paure, i miei sfoghi, i miei suoni, non saprei davvero a chi rivolgermi. Attingerei da te la forza per la mia lotta culturale, ma non riesco, sei troppo grande, sei immenso per me, piccolo pazzo incatenato in questo luogo dai miei sogni e dai miei errori” Indie pensava ed avrebbe voluto avere con se la chitarra per dare un senso a questa composizione improvvisata. Continuò:”sarei potuto partire ed allontanarmi da te, ma come avrei fatto poi a non poter poggiare i miei piedi sulla tua sabbia ed avvertire il freddo che solo tu mi puoi dare che solo tu sai come dare. Dammi la forza per affrontare questi giorni importanti, dammi la forza per affrontare anche tutto quello che ne verrà poi, dentro e fuori di me, dentro e fuori di te. Madre silenziosa, avvolgimi nel tuo freddo abbraccio e scatena l’indipendenza che è in me. Madre silenziosa, firma ogni mia nota e lanciala in aria. Dominala come se fosse tua anche se viene da me. Madre silenziosa, bagnami con le tue fredde acque ed accompagnami in questo mondo che ho appena accettato grazie a te.” Indie si sentì come rasserenato. Il solo fatto di riuscire a parlare con il mare come se fosse sua madre lo faceva sentire figlio, accudito, accettato, perdonato. Il solo fatto di potersi rivolgere a “lei” lo rendeva immensamente più piccolo, fragile, ma difeso dalla sua immensità. Poi il vento gli scompigliò i capelli, come a dire: “vedi che ci sono anche io qui” ed Indie gli rispose: “padre che guida ogni cosa, dammi la forza per indicare la strada agli altri come tu fai con me. ” e si calmò definitivamente. Questo suo saluto new age lo aveva tranquillizzato ed ora si sentiva come rinato. Si era rivolto alla natura, alla sua natura, quella che aveva creato per se e per i suoi infiniti dubbi e la natura gli aveva risposto, dandogli la forza. Si appoggiò sui gradoni per ripulirsi i piedi e si infilò le scarpe un po’ infreddolito. Ricominciò il suo cammino attraversando la corsia del lungomare più vicina a sua “madre”. “Guardare Salerno da qui è meraviglioso non credi?” si rivolse al pescatore sullo scoglio che costeggiava. “Si rispose lui, se solo si prendesse qualcosa sarebbe ancora meglio” “I pescatori si lamentano sempre”, pensò Indie e salutò con un sonoro “Buona giornata!” e continuò il suo cammino intravedendo quella curiosa barca che vendeva gelati sempre piena di bambini che cavalcano quegli odiosi cavalli sonanti a gettoni. Indie odiava quei suoni così stupidi ed assordanti e pensava che nessuno mai aveva pensato che fosse il caso di allungare quei loop in modo da non ammazzare i genitori costretti ad attendere che i propri bambini mollino l’affare ormai domi. Sorrise e pensò che non fosse affar suo. La sua giornata era interessante ed andava vissuta per come era: interessante. Decise di procedere a piedi ancora un po’ ma poi avrebbe di sicuro recuperato la macchina per arrivare nella zona orientale. Gente stipata sulle panchine a prendere il sole, Indie che camminava di fianco al mare ed il sole in alto a segnalare quel calore tipico della pioggia che arriverà prima o poi. Una giornata perfetta, una serie di eventi che portano a dire ad Indie “ne vale la pena”. Gli impegni del pomeriggio prevedevano pranzo, telefonate, prove e poi l’emozione di salire nuovamente su quel tanto adorato palco. L’emozione di salire su un qualsiasi stage la conosci solo se l’hai provata. Questa cosa Indie se la ripeteva in mente spesso e volentieri quasi orgoglioso e presuntuoso di questo privilegio. Ne aveva parlato un giorno con Frank prima che lui iniziasse a fare teatro. Frank non gli aveva creduto, diceva che era una cosa di cui gli artisti si vestivano per sentirsi più fighi. Poi Frank aveva cominiciato a frequentare quella compagnia teatrale dal nome ambiguo “Il pentagono” che faceva pensare più ad una organizzazione militare che ad una compagnia di artisti. Da quel giorno aveva capito che quell’energia riesce a dartela soltanto il gesto di salirci sopra. Il palco è una esperienza diversa da tutte le altre. Non è paragonabile a null’altro sulla terra. E quel giorno Indie ci tornava sul palco. Ogni volta era una cosa nuova, una nuova emozione, ogni volta la prima finché ce la fai.

[^]

Cap.01 – Il circolo

“Mi chiamo Indie, e questo già è un problema. Da quando ho deciso di essere indipendente le cose si sono sempre complicate, non hanno mai trovato un appiglio, un momento di giudizio reale. Tutto si è basato sempre e comunque su sogni. Tutto su delle piccole, a volte grandi nuvole che mi hanno caratterizzato finora” Le nuvole su cui Indie cammina, si dice che finiscano sempre con fargli scalciare qualcosa. “Proprio perché penso e perché guardo in aria. Le nuvole appunto. Guardo le nuvole. Si sono indipendente e guardo le nuvole.

Trascino il mio sacco e lo porto allo spettacolo. The show must go on. Così come i sogni “must go on”. Qualcuno direbbe che ho comprato la chitarra per punire qualcuno, ma l’ho fatto solo perché avevo un’urgenza.

Si mi piace chiamarla così. Urgenza e non esigenza. Quando suono lo devo fare altrimenti mi suono addosso. Non c’è nessun altro motivo. L’urgenza è fisiologica, l’esigenza è contestuale. Sono un musicante indipendente. Un musicista blaterante per cui un musicante. Suono il silenzio e non canto, suono la natura e me la godo. Suono la materia, gli elementi. Avverto l’infinito addosso e me ne vanto. Mi scrollo di dosso i problemi solo quando sono con quell’arnese infernale, la chitarra. Si dice che sia l’unica donna in grado di non tradirti, ma è pur vero che le corde si rompono ed anche spesso. Suono la vita, ma chi sono io per poterla descrivere? Sono solo indie e non so fare altro. Sono solo uno che agita la mano destra mentre la sinistra pigia dei tasti. Lo faccio solo perché ne sento un fottuto bisogno. Lo faccio perché voglio lasciare traccia della mia esistenza e per “testimoniare il genio del momento in cui eseguo qualcosa”. L’attimo irripetibile in cui il suono si manifesta. L’attimo irripetibile in cui il cervello ti comunica che è ora di partorire quella cosa che è ormai troppo pesante da portare addosso, troppo leggera per farla volare. Quella cosa è a metà strada tra essere tua o del mondo intero. Quella cosa che parte da dentro e si materializza nelle tue mani, fa vibrare una corda e si diffonde nell’aria e per questo la respiri insieme all’ossigeno. Esso se ne arricchisce ed arricchisce anche te, ignaro di respirare una cosa diversa ogni santa volta che il rito si ripete:respiro, urgenza, cervello, mano, corda, aria, respiro. La magnificenza del cerchio, della ripetizione dell’impossibilità di trovarne una quadratura. Sono indipendente e me ne vanto come una signorina che mostra per la prima volta i tacchi all’umanità intera. Come una donna al suo matrimonio, mostro il mio vestito bianco dell’indipendenza, la mia meringa appetitosa della non sudditanza. Mostro al mondo intero che il mio suono non è figlio di nessuno, mostro al mondo intero che le mie corde sono mie e che la mia musica non sarà mai frutto di un contratto. Sono Indie io, non tu. Sono indie io che abbasso il volume per non disturbarti quando dormi e lo alzo per disturbarti per lo stesso motivo. Il nome me lo sono dato da solo perché sono Indie. Ma chi ero prima? chi sarò poi? “

Indie iniziò il suo spettacolo così. Il “Fall Festival” era stato finalmente inaugurato e voleva necessariamente essere il primo a parlare. Aveva partorito questa idea principalmente per riuscire a spiegare alle persone che c’è dell’altro nel mondo. Che la musica non può sempre essere la stessa e che il modo migliore per spiegarlo era entrare in prima persona sul palco e dire tutto quello che sentiva fosse giusto. Il “Fall Festival” era il festival che aveva sempre sognato. Il momento per poter percorrere tutta la sua vita artistica a ritroso per poterla rivivere ancora. “Non cambierei nulla di quello che ho fatto” diceva in continuazione a tutti quelli che lo conoscevano. Ma nulla poteva cambiare.

Il circolo che ospitava il festival era il punto di riferimento di ogni musicista della zona. Tutti in qualche modo erano passati di là. Si chiamava “Mumble Rumble” e rappresentava letteralmente il “Pensiero Azione” della comunità intera della zona orientale della città. Anni ed anni per capire come pronunciare le due parole, ma alla fine tutti lo chiamano il “circolo”.

Il circolo era tutto per i musicisti, era il posto dove discutere, studiare, sfidarsi. Era il posto dove le idee circolavano gratis ed era molto difficile farle passare oltre il confine del centro cittadino. Le idee si sa sono scomode oggi come allora. Il “circolo” partendo da una cultura jazz/blues era riuscito a creare situazioni straordinarie, musicisti di ogni tipo, razza, cultura ed ispirazione. Il circolo aveva creato dei mostri per la città. Il circolo era la città dal punto di vista artistico. Di conseguenza la zona orientale della città era a tutti gli effetti la zona orientale del circolo.

Indie continuava il suo show trascinando un sacco strapieno di cd di musica indipendente. Una quantità di cd senza copertina, masterizzati a 300x recanti nomi di gruppi sconosciuti che sarebbero molto probabilmente rimasti tali per sempre. “Sapete cosa sono questi?”, la platea non rispose. Dunque tuonò più forte: “Sapete COSA SONO QUESTI?”, e la platea: “sono cd?”. Qualcuno disse “regali di natale?”, altri “caramelle?” e le solite risatine inutili. “Sono sogni!” Questo è un sacco di sogni. Pensavate che sognare fosse gratis? Invece no miei cari! Sognare costa caro”. L’uomo che suonava le nuvole si stava avvicinando alla terra pian pianino. Mentre recitava il discorso ripetuto migliaia di volte nella sua testa nelle notti insonni, stava cercando di toccare terra. Si stava avvicinando ad una cosa reale: il costo dei sogni.

Quanto era costato il “circolo”? Il circolo era stato occupato. Era una palestra, sporca. Sporca ed abbandonata. Il circolo non era più di nessuno quando fu occupato. Ora era solo di chi lo occupava. Ma il circolo era la città e chi abitava la città abitava il circolo. Una fusione perfetta tra cultura e civiltà. Gli unici rapporti che continuavano ad esistere erano semplicemente quelli creati con le jam session. E se qualche volta queste venivano registrate avevano il senso dell’eternità. Si perché la musica sfugge, le improvvisazioni sono attimi di vita reale. Le improvvisazioni sono come le nuvole, hanno quell’aspetto solo per un istante e niente più. La musica scappa da chi la crea, la musica non riusciva ad essere intrappolata nella città e quindi nel circolo.

“Migliaia di euro” tuonò “per ogni sogno. E quanti di questi restano irrealizzati? Tutti? Beh quasi ..” Quanti sogni sprecati, quanta musica prodotta ed abbandonata. Quanti racconti, quanta realtà consumata e buttata via come se fosse spazzatura. Certo non tutto è arte, non tutto è un capolavoro, ma non è di “bellezza” o di “prodotto” che stiamo parlando, ma di urgenze. “quasi tutti questi cd sono delle letterine a Babbo Natale, sono delle richieste di aiuto”. Indie sottolineava con forza che ogni singola nota suonata è figlia di un grido di passione, è figlia di un desiderio di uscire, di volare, di smaterializzarsi nell’aria. Sottolineava con forza che non tutti potevano capire quella sensazione se non avessero almeno per una volta suonato qualcosa. Non tutti potevano parlare di urgenza senza almeno una volta aver provato la sensazione del legno sotto le mani, delle corde che ti tagliano i polpastrelli. “Almeno per una volta, ognuno di voi che è seduto qui stasera, ha suonato qualcosa ed ha avvertito quel qualcosa, quel senso di ‘nulla e tutto insieme’, quella sensazione di micro e macro, di ora e mai più. Almeno per una volta hai pensato”, rivolgendosi ad un ragazzo grassoccio, rossastro in viso ed in testa, “che suonare era come fare l’amore con te stesso e te ne sei vergognato, è vero rosso?”. Questo piccolo avvicinamento alla realtà scatenò un sussulto nella platea che applaudì sorridendo ed aumentando inesorabilmente il livello di rossore del ragazzo. “E poi quando vi siete resi conto che tutto questo suonarvi addosso non vi basta più pensate a produrre qualcosa, e cercate di venderlo, di renderlo pubblico. Chi vi ascolterà? Chi comprerà le vostre masturbazioni? Chi comprerà le vostre nuvole, i vostri sogni? Ve lo siete chiesto? Conviene fare un disco di musica indipendente?”. La domanda ovviamente non trovò risposta nella platea. Molti dei presenti volevano suonare dal vivo. Qualcuno aveva detto che l’unico modo per vendere dischi era suonare dal vivo.

Il circolo aveva una sala concerti di tutto rispetto. Un impianto da 500W perfettamente funzionante. Un mixer 32 canali con un suono cristallino e definito. Degno dei migliori locali europei e dei migliori fonici affermati. Non era certo questo che spingeva le persone a suonare al circolo, ma quell’atmosfera che da sempre è riuscito a regalare ai suoi ospiti. Un’atmosfera elettrica, carica e frizzante. Un’atmosfera ispiratrice e complice di grosse creazioni a volte lasciate volare via nel nulla.

“Non fate volar via la vostra creatività vendendola a chi fa del vostro lavoro e delle vostre creazioni uno schifo di prodotto”, e la sua voce veniva catturata dalla fonoassorbenza dei materiali nuovi appena installati. “Non rendete vana una vostra folle creazione. Si folle, perché solo dei folli possono pensare di scrivere un brano. Solo dei folli ne possono avere la voglia e l’urgenza”. Urgenza, ancora questa parola. Gli piaceva e la ripeteva in continuazione come un mantra. Forse lo faceva per ricordarsela per sempre. “MA ricordatevi che anche i folli studiano. Anche i folli hanno bisogno di dare un po’ di disciplina alle loro follie”.

Il circolo aveva una scuola di musica di tutto rispetto. Professionale e sociale. La musica per tutti e tutti per la musica. La sala dove una volta si tenevano le lezioni di chitarra era tappezzata di amplificatori. Un vecchio Roland, che poi ha guadagnato il posto d’onore sul palco, di coloro grigio metallizzato regnava sovrano da circa 20 anni. Ci hanno suonato un pò tutti, bassisti e chitarristi. Bravi, talentuosi e negati (o cani come si osava dire). Sì, in realtà ogni musicista del circolo aveva la sua nomea. Ogni musicista aveva la sua etichetta. Esistevano così gli intoccabili e quelli che potevano essere derisi. Tutto dipendeva da quello che avevi dimostrato al “crocicchio”. Tutto dipendeva da quello che sapevi fare nel campo del blues e del jazz. Il resto, almeno per i primi tempi, era eresia.

“Sapete che facciamo adesso?” disse Indie continuando “Telefoniamo in diretta a quel buontempone del Label Manager della Daybox Records, si gli facciamo una bella telefonata!” Tirò fuori il suo smartphone e compose il 3391745086. Chissà perché quel numero lo ricordava così bene. “Ciao Max!” esordì e Max:”ciao Indie.. scusa, ma non ti sento bene.. sei in una caverna?” e Indie “come sempre caro Max. Io continuo a vivere in una caverna e tu continui a non sentirci bene..” La gente in sala applaudì timidamente. “Hai mica per caso ascoltato il mio ultimo lavoro che ti ho spedito?” e Max :”ascolta, mandami una mail per ricordarmelo, sai in questi giorni c’è sempre un pò di marasma, casini vari..”.

A quel punto la voce al telefono cominciò a dissolversi nel nulla come le sirene delle ambulanze una volta passate. Indie non ascoltò più nulla anche perchè conosceva bene quelle risposte, le aveva sentite migliaia di volte. Per un attimo il tempo si fermò. La sala gli sembrò come un acquario in cui nuotare e da cui tentare di uscire. Si sentì male come si era sentito tutte le volte che qualcuno gli aveva detto che non aveva avuto tempo per lui. Eppure lui era lì, sul palco del circolo e le persone che erano lì con lui ad ascoltarlo lo vedevano come un punto di riferimento, una dichiarazione di indipendenza. Indie era lì colpito da quell’ennesimo rifiuto e la sua indipendenza barcollò, ma fu un attimo e l’acquario sparì, il sorriso gli tornò sul volto ed il tempo riprese a scorrere con il suo imperturbabile costante click in quattro quarti a 180bpm. Indie chiuse il telefono, forse Max stava ancora parlando, ma non gli interessava più. Aveva ottenuto quello che gli serviva. La dimostrazione della mancanza di ascolto da parte di quelle realtà che di indipendente avevano soltanto l’aggettivo dopo la parola etichetta. “Avete visto cari miei, avete notato? scuse solo scuse. non gli interesso io, non gli interessate voi. Non gli interessa nessuno. La realtà è legata alla presenza o meno di qualcosa che sia televisivo, ‘figo’ come amano dire coloro dell’ambiente, una cosa che ‘funzioni’.. Funzioni? Che frutti forse, non che funzioni!. La musica è prodotto niente altro ormai. Un cd è come una tv a schermo piatto in offerta, serve solo per realizzare il necessario prima di essere soppiantata da un’altra tv, sempre a schermo piatto, piatto come il contenuto, piatto come l’assenza di spessore, piatto come l’elettroencefalogramma di chi ha deciso che le cose dovessero finire così. Non perdete mai la speranza però di riuscire a realizzare qualcosa che sia veramente indipendente e non lasciatevi fregare dalle mode. L’indierock non esiste, è soltanto un’altra invenzione fatta per cercare di catalogarvi. La musica è la musica niente di più che l’espressione di se stessa. Detto questo vi saluto ragazzi miei e vi lascio allo spettacolo dei…”

E così si dileguò dietro al palco accompagnato dagli applausi della platea. “Sarà servita la lezione?” pensò, “chissà. Non si sa mai. Se riesco a portarne uno dalla mia parte sarò stato il primo a fare una vera rivoluzione culturale”. Lo sapeva bene Indie che nemmeno per lui era facile restare dalla sua parte. Era difficilissimo essere un indipendente a tutti costi, un indipendente doc per intenderci. Le tentazioni erano sempre tante, anche perché funzionava così. La serie B è solo la serie A con meno soldi, ma pur sempre una serie, con un campionato, dei tifosi, delle sfide, delle vittorie, delle sconfitte, dei giornali che ti rendono Dio per un mese e nessuno per il resto dei giorni.

Poi la sua mente ritornò inesorabilmente nell’acquario, il cerchio gli tornò in mente: respiro, urgenza, cervello, mano, corda, aria, respiro, e poi respiro, urgenza, cervello, mano, corda, aria, respiro. Era l’unica cosa a cui riusciva a tendere prima di ogni notte. Poi di colpo come un do diesis su do maggiore l’acquario svaniva nuovamente e Indie tornava sulla terra.

Nulla gli faceva venir voglia di tornare dentro ed ascoltare il gruppo che si esibiva. Non gli interessava, la sua era una missione ed il suo discorso era tutto quello che aveva pianificato per quella sera. Non gli interessava null’altro che dire a tutti come la pensava. Si incamminò per le strade della zona orientale di Salerno. Superò via Loria e raggiunse la sua auto. Vi crollò all’interno diede un colpo alla chiave ed accese la radio:

Pensò: “E intanto mi avvio come tutti i giorni in auto a prendere quella maledetta autostrada.. l’A3, la fantastica A3 quella che come dice qualcuno non andrebbe allungata con un ponte sullo stretto, bensì andrebbe “bypassata” da Salerno a Reggio Calabria con un unico ponte lungo 400 Km. Sono le 22.30 e sono già sulla rampa della tangenziale ad ascoltare i cd demo che mi hanno dato al Mei l’anno scorso. Sono nel cambio tra i Cherry Sand, gli Stripop ed Obomobo tra le migliori band che ho ascoltato in questo periodo. Sono nel delirio della pioggia che sembra non abbandonarci più. “My non conventional girl” dei Cherry Sand mi aiuta ad affrontare il grigiore di questa ennesima giornata del cavolo.” Superate le 25 pattuglie della stradale arrivò in quel fantastico video game del tratto tra Pontecagnano e Salerno e pensò “ma chi cazzo me l’ha fatto fare di prendere la tangenziale”. Imprecò 87 volte contro il coglione di turno con la Polo (citando una vecchia pubblicità, verrebbe da dire che la Polo è “lo stronzo con la macchina intorno”). Sul finale del tratto tra la perla picentina e la perla del mediterraneo, prima di vedere lo svincolo verso la Salerno Avellino (altra opera eccezionale che Indie aveva frequentato per diversi anni per andare all’Università di salerno che quel buontempone di DeMita ha voluto a metà strada tra Salerno ed Avellino (mah) famosa per la frase all’uscita di Lancusi “salimmo sù, el primo e io secondo, tanto ch’i’ vidi de le cose belle che porta ‘l ciel, per un pertugio tondo. E quindi uscimmo a riveder le stelle”….) pensò … “oddio devo riaffrontare l’uscita di Fratte anche oggi”. Intanto tolse un Cd per passare all’altro e disse: “cacchio che belli gli Stripop, bella l’idea della copertina della demo belli i pezzi.. ma adesso li tolgo perchè voglio sentire meglio Obomobo “troppo difficile da pronunciare” ma troppo bello da ascoltare..” e si accorse che c’era qualcosa che preannunciava che la nottata musicale sarebbe più interessante del solito… erano le 22.46, tolse il Cd e lo stereo della sua auto passò da CD a Radio… ovviamente sotto c’era ….virgin radio… (cosa pensavate radio satana? …non so se avete notato a parte la potenza del segnale di radio maria essa si distingue anche per una qualità audio terribile con un riverbero che ricorda le voci dell’inferno e di solito c’è un bambino che telefona dall’aldilà e gli chiedono come ti chiami? ed il piccolo demone risponde “Cristiano” (stiano…tiano.. iano….ano….no) che preghiera vuoi dire?….e tu pensi ma saranno cazzi suoi?? ed egli: “si voglio pregare iddio affinchè voi cambiate il fonico, la programmazione, nazione, pianeta, galassia…..”)…. Cmq il santo protettore delle radio del mondo passò “Stairway to heaven” e Indie disse “…e vaiiiiii, goal, goooal…” e cominciò a cantare a squarciagola “…and as we wind on down the road our shadows are taller than our souls…” e l’impedito che gli passò davanti a sinistra per andare a destra verso l’uscita di Salerno Nord si trasformò nel suo migliore amico e disse “ma sii togliti comunque dai coglioni ma mi sei simpatico” perchè intanto… la vena gli si gonfiò… raggiungendo l’apice quando tentò senza fortuna l’unisono con Robert Plant ….strozzando “there walks the Lady we all know, who shines white light and wants to show “….ed il suo cervello pensò che aveva già fatto un’altra giornata di lavoro… e si soffermò immediatamente ad interpretare il significato di: “How everything still turns to gold.And if you listen very hard, The tune will come to you at last. When all are one and one is all …To be a rock and not to roll.” …coda del brano … jimmy page continuò imperterrito a suonare cose meravigliose e quando tutto sublimò in “…and she’s buying a stairway to heaven..” era già nel parcheggio di casa con la macchina in moto ad attendere fino all’ultima vibrazione.. “non mi voglio perdere niente… ” pensò e realizzò che: “Yes, there are two paths you can go by But in the long run Theres still time to change the road you’re on.

And it makes me wonder.” Si, ci sono due percorsi che puoi seguire ma nella lunga corsa

c’è sempre tempo per cambiare la strada su cui sei…e questo ti fa pensare..”.

Salì le scale di corsa, aprì la porta del suo monolocale, buttò il giubbino sul divano dell’Ikea e si lanciò verso il frigo. Unica salvezza definitiva della sera. Indie aveva stabilito il nuovo record dal circolo a casa, 7 minuti. Si appoggiò sul divano con un toast appena scaldato e squillò il cellulare. Guardò sullo schermo: “Jamba”. “Non posso non rispondere” pensò sorridendo e scelse il bottone verde rallegrandosi di quella chiamata. Gianmaria era una persona straordinaria che lo metteva sempre di buon umore. Era uno dei pochi che riusciva a capire la sua follia essendo anch’egli folle di suo. Le telefonate tra Indie e Jamba erano assurde. Se fossero state intercettate un giorno anche la polizia sarebbe impazzita dal ridere. Pura follia. Jamba per anni aveva preso appunti su quelle telefonate ed un bel giorno, il giorno del compleanno di Indie, gli portò un foglio di carta con il titolo: “Il frasario di Jamba ed Indie” su cui aveva scritto tutte le frasi più forti, più importanti delle loro conversazioni. Aveva aggiunto qualche frase di Marziano, giusto per rendere il tutto più interessante, ma la frase che regnava sulle altre era: “Il passato è quel tuo vecchio amico, che quando torna dal suo lungo viaggio, te lo mette in culo”. Anche Indie la preferiva tra le altre, non a caso l’aveva partorita.

Dopo cinque minuti di puro niente Jamba ed Indie si salutarono dedicandosi alla loro ultima pratica il dormire. Ma Indie sapeva bene che dormire non era facile. Tutte le volte che metteva la testa sul cuscino gli partiva una colonna sonora in testa ed una serie infinita di pensieri lo accompagnavano in quell’ora e mezza di dormi veglia. Quella sera aveva un solo tormento in testa: respiro, urgenza, cervello, mano, corda, aria, respiro, e poi respiro, urgenza, cervello, mano, corda, aria, respiro e poi nuovamente come un mantra ciclico ed infinito, la sua loop-preghiera prima di prendere finalmente e definitivamente sonno.

[^]

Cap.02 – Umanità accalcate

Ogni mattina, ogni santa mattina succede la stessa identica, inesorabile cosa. Indie allunga una mano per verificare le sue poche certezze ed una volta raggiunte si leva dal letto con una manovra degna di uno psicopatico. Si mette prima di lato, poi a pancia in giù, poi appoggia le mani come se volesse fare una flessione ed ifine si tira su dando le spalle al soffitto, le ginocchia avanti e poi il piede destro a terra e successivamente l’altro. Si parlava di certezza, sì, di aver dormito da solo, di essere tutto intero e di sentirsi in grado di tirarsi su. La mattina dopo lo show al Fall Festival Indie si sentiva carico. Sentiva di aver fatto qualcosa di aver detto a tutti come la pensava. La telefonata a Max gli aveva fatto guadagnare punti, ora da tutti era considerato ancor più indie. Era il momento di muoversi e di lanciarsi nella città. Indie usava il pullman per recarsi in centro. Lo considerava civile, ma soprattutto lo vedeva come un esperimento a cui non sottrarsi per nessun motivo. Nel pullman incontri tutta l’umanità, è il posto dove la gente viaggia insieme con i pensieri mentre è a contatto, a volte fisico, con quelli degli altri. Aveva costruito delle storie intorno ad alcune persone ed ogni mattina cercava di poterle confermare. Una persona che non riusciva assolutamente a sopportare era una signora sulla cinquantina sempre ben vestita che sembrava non aspettasse altro che accendere il telefono e fare una chiamata non appena entrava nel pullman. Sistematico come la manovra che Indie usava per alzarsi la mattina, quella stronza tutti i giorni entrava nel pullman faceva in modo per farsi lasciare il posto, tirava fuori il telefono dalla sua borsa da migliaia di euro e chiamava una sua amica rendendo così la sua vita pubblica. Che assurdità.

Questa è la storia che Indie aveva costruito sulla “signora”. “Ebete, era il suo nome, aveva due figli. Il primo attaccato alla sottana di mamma e sempre a casa a masturbarsi con la sua playstation ultimo modello. Il secondo un pò più alternativo, ma di quelli che raccontano tutto a mamma. Il primo figlio si chiamava Amedeo e non c’era una volta che non si rivolgesse alla mamma con una dolcezza mielosa ed antipatica da far venire il voltastomaco. Il secondo, Ribelle, si era trasferito a Roma a studiare alla Louis e quindi aveva creato un “vuoto di famiglia”. Un vuoto a perdere pensava Indie. “Il signor “vado alla Louis” essendo un nulla facente e quindi uno per niente organizzato e capace di gestirsi da solo, evidentemente chiamava mammina tutte le sere e di conseguenza le scaricava una camionata di guai, dal condominio alle bollette al vicino di casa che scorreggiava di notte, al fatto che non riusciva a farcela con i soldi fino a fine mese e che non aveva intenzione di andare a lavorare per potersi mantenere da solo (l’idea non superava la cartilagine dell’orecchio medio). Di conseguenza gli argomenti di Ebete a telefono con la sua amica Vacua (per gli amici) erano tutti della stessa serie: “Mio figlio, mio figlio, mio figlio,….” e poi “io gliel’ho detto che sono una mamma moderna per cui può fare quello che vuole, ma quella non mi piace, poi la gente che dice, bla bla bla bla bla bla..”.

Il secondo personaggio che spesso incontrava era invece molto più romantico. Tipico panettiere che torna a casa a dormire dopo aver panificato. GLi veniva voglia ogni volta di abbracciarlo e ringraziarlo per il lavoro svolto. Il pane, che cosa meravigliosa e poi chi lo faceva, erano per lui, poeti. Si poeti della farina, maestri indiscussi della bontà, fornai della felicità. Il pane caldo al mattino, i profumi, il sapore, la sensazione del croccante. Tutta realtà che a Indie piaceva quasi più delle sue nuvole. Alfredo doveva chiamarsi secondo Indie e probabilmente si chiamava così. Alfredo dormiva nel pullman e si svegliava alla stazione come per incanto come se un filoncino, ed una rosetta appena fatta, gli sussurrassero che era ora di scendere ed andare a riposare a casa. Alfredo era il personaggio principale della commedia “Bread whisperer” che Indie aveva appena inventanto all’impronta ogni mattina.

Tutto questo avveniva di solito intorno alle 9.00 del mattino e quella mattina Ebete stava per salire sul pullman quando Indie fu sorpreso dal suo telefono. Che fare? comportarsi come Ebete, o lasciare che il telefono squilli all’infinito. Mettere il silenzioso oppure scegliere “rifiuta”? L’I-coso aveva una sola funzionalità strabiliante: quel cosino di lato che quando lo sposti nella posizione silenzioso ti da quel senso di salvezza e liberazione che solo uno squillo di telefono può rovinare. Indie decise di non rispondere e di perdersi tra le sue storie da pullman: Umanità accalcate, storie distanti anni luce, ma tutte li a guardare nel vuoto o sul quotidiano di turno, od a verificare l’arrivo della terna arbitrale dei controllori. Fanno il loro check agli effetti personali, il portafogli, il telefonino, la zip della borsa da lavoro..ok.. scendono dal bus e sono pronti per affrontare una nuova giornata.. nuovi come ieri… si chiedono se accadrà domani, ma sanno che è lontano ancora quel giorno, sanno che non succederà presto, ma succederà.. aprono il loro ufficio e si consolano perchè è il loro, accendono il pc, il portatile, controllano la mail.., leggono i fatti, ma niente… non ancora…, non ancora è successo quello che desiderano tutti. Il pullman era tutto questo, un universo migrante e traballante. Del resto anche la sua vita era così. Indie non scendeva mai alla fermata più vicina al posto dove aveva deciso di andare. Indie scendeva molto prima e puntualmente si lamentava del fatto che aveva speso un euro e 20 centesimi per nulla. Ma non voleva mancare all’appuntamento con l’universo migrante così come non voleva assolutamente mancare all’appuntamento con l’universo camminante. Quale migliore fonte di ispirazione delle persone che camminano? Quale modo migliore per poter scaricare a terra le tensioni del mondo? Quale modo migliore per poter guardare in faccia il mondo? Quale migliore occasione per poter vedere la propria ombra in un giorno di sole in una città bella come Salerno? Decise di scendere alla stazione. Di li a poco iniziava il C.so Vittorio Emanuele. “Eppure mi ricordo quando ci passavano le macchine!” disse a bassa voce. Sì molti anni prima dal “corso” passavano le auto e le persone insieme nella stessa orgia di casino, spesso pioggia, e rumore. “Salerno al mattino è straordinaria, è una città senza tempo” pensò questa volta per non farsi sentire da tutta quella “marmaglia che sa solo criticare”. Indie amava la sua città ed era l’unica cosa che gli portava dipendenza e non gli faceva male, oltre la chitarra ovviamente. Ma quella gli faceva male e come! Attraversò il primo tratto e si diresse verso il suo pusher preferito: Mario. Il negozio di dischi storico di Salerno, un amico di vecchia data, una persona con cui poteva sempre scambiare una chiacchiera interessante. Alla fine era come un rito anche questo, passare dalla sua vetrina e rendersi conto che era sempre troppo presto per poterlo salutare. Mario apriva più tardi, Indie amava uscire presto, anche con gli occhi a palla, ma presto. Superato Mario affrontava l’attraversamento di via Diaz e qui si verificava sistematicamente un fastidio ormai noto. Con tutto il rispetto del mondo per gli anziani Indie non sopportava una sola categoria: “Il nonno in divisa”. Si chiedeva come mai una persona che non è in grado più nemmeno di guidare e quando lo fa crea spesso problemi, potesse dirigere addirittura il traffico. Ma poi si rendeva conto che non poteva avercela così tanto per questa cosa, del resto erano persone che altrimenti sarebbero rimaste tristemente sole e si sarebbero sentite forse inutili. Li almeno potevano guardare il lato B delle mamme che portavano i pargoli a scuola senza vergognarsene. Indie pensò:”da grande voglio fare il nonno in divisa” e sorrise come un cretino solo sa fare. Aumentò il passo e superato l’ultimo tratto di corso s’infilò nel centro storico della città. Via Mercanti lo attendeva con i suoi negozietti e le luci di Natale già pronte da tempo. Via Mercanti lo attendeva come solo un centro storico sa fare. Lo attendeva per accoglierlo, per abbracciarlo e per dirgli quanto le faceva piacere avere un cittadino nelle sue viuzze, piene di negozi e di umanità. Un bambino uscì di corsa da una casa sbattendo una porta. pppAMMM. Sua madre immediatamente dopo riaprì la porta ed urlò: “e a ì sotta a na machinaaaaa!!!” (traduzione: devi finire sotto un auto!). L’augurio della mammina al figlioletto risuonò all’interno del centro storico come un anatema. Pochi passi e si aprì davanti agli occhi la piazza del Crocifisso (ma perché stava andando di là?) come un Do quinta bemolle. Aveva questo fantastico vizio di dare un accordo ad ogni cosa che incontrava. Ogni accordo gli suggeriva una tensione oppure una risoluzione come dice la teoria dell’armonia musicale. Una piazza in Do quinta bemolle è una piazza che da tensione. Fosse stata in Sol maggiore cambiava tutto. “Il telefono cacchio” pensò, “il telefono non l’ho manco guardato..di sicuro qualche rompi balle.. guardiamo..”.

Fly l’aveva chiamato ed il suo cuore sussultava. Non era un rompiballe assolutamente. In quelle poche occasioni che aveva avuto non era riuscito mai a dirle tutto quello che voleva dirle. Non ci riusciva, perché i tempi erano sempre sbagliati. Aver perso quella telefonata lo intristì nuovamente. Aveva perso una nuova occasione. “cazzarola… mai più evitare di guardare il telefonino..” pensò categorico ed incazzato nero con se stesso. “che faccio riprovo a chiamare? provo?” ma per fare cosa, per beccarsi un ennesimo rifiuto di chiamata. Fly era la persona che viveva nella sua vita da sempre. La persona a cui riusciva a dire tutto e senza nessun tipo di rimorso. D’altro canto Fly riusciva a capirlo in tutto e per tutto. Fly Indie era come dire un nome bellissimo per indicare “vola indipendente”. Si rammaricava di non aver risposto e si proponeva di chiamare ad un orario più consono. Fly era un Mi minore settima nona. Un accordo triste, ma splendido, caldo e pieno di corde a vuoto (nel caso della chitarra) e risuonava nel suo cuore con un grandissimo reverbero.

La passeggiata al centro storico diveniva più interessante ed Indie cominciò a guardare in alto soddisfatto in qualche modo dal fatto di essere stato pensato anche e solo per un pò. Il suo sguardo non potè non accorgersi del balcone del soprintendente all’incrocio con Via Botteghelle. Gli veniva sempre voglia di salirci su e vedere il centro storico da un altro punto di vista. Quello di chi amministra, quello di chi ha la responsabilità di mantenere in piedi la bellezza architettonica di un posto. Via botteghelle era una via storica, non poteva non essere attraversata. In fondo alla strada a sinistra salendo, anni fa esisteva il locale “Le botteghelle”. Un carnaio fumoso in cui si esibiva il meglio del blues e del jazz. Si dice che anche Dizzie Gillespie ci abbia suonato una volta. Ad Indie questa cosa che la città avesse avuto un passato da Cotton Club gli riempiva la pancia. A proposito… un caffè al “Caffè dei Mercanti” è quello che ci vuole. I due personaggi che gestivano il Caffè dei Mercanti anni fa erano una sorta di cartone animato vivente. South Park a confronto era una telenovela. Era un piacere prendere il caffè in quel posto. Si sedette su una delle panche piccole all’inizio del locale dando le spalle al muro. Doveva guardare il passeggio e costruire storie sulle persone mentre passavano. Ordinò il caffè e chiese gentilmente lo zucchero di canna. Quandò il nostro “kenny” portò il caffè al tavolo iniziò il solito rito della bustina di zucchero: triplo scuotimento, taglio perfetto longitudinale, mescita dello zucchero e chiusura all’interno della bustina aperta del lembo strappato.

Il caffè era come sempre ottimo ed era sempre condito con qualche battuta che Indie ascoltava dal suo personalissimo “South Park”. Guardò nuovamente il cellulare e si rese conto che si era fatta ora di aprire lo studio. Ecco, se fosse stato un avvocato, chissà un commercialista, un informatico, forse adesso i pensieri che gli frullavano per la testa sarebbero stati altri. Indie aveva uno studio di registrazione, piccolo, ma funzionale e soprattutto al centro del mondo, al centro della sua città. Si diresse verso via Canali ed a due passi dall’Ave Gratia Plena la porticina del suo regno lo attendeva ansiosa di essere aperta. La porta di uno studio di registrazione al centro storico non poteva che essere un Fa minore settima: difficile per un chitarrista, ma un accordo fascinoso e di una certa tensione. Chissà forse Indie stava cercando il suo Do maggiore da qualche parte, ma ne aveva paura come se fosse un punto di arrivo, di risoluzione. Indie era indie e sapeva fare solo quello. Scese le scale ed entrò nel suo regno. Il banco del mixer lo attendeva ed i segni di due sere prima si fecero subito notare e saltarono ai suoi occhi come il primo impegno da svolgere: togliere un po’ di casino da mezzo. Quella mattina dovevano venire i “Pocket full of cluods”. Che bel nome e che bel gruppo. Adorava lavorare per loro alla produzione di quello che sarebbe stato l’ennesimo salto nel vuoto. L’ennesima inutilità per il mercato, ma l’ennesima prova che la buona musica non appartiene al mercato. La buona musica è bella perché è bouna musica, con il mercato non ha nulla a che fare.

Lo studio lo aveva chiamato “IndieFarm” e quelli del centro storico pensavano fosse una farmacia, magari parafarmacia e a volte gli chiedevano il maalox. Sulla parete sinistra di fianco alla gigantografia di John Cage c’era un poster che Indie aveva fatto stampare dal suo amico Type (Enzo per gli amici) che riportava la seguente frase: “Il suono è l’interruzione del silenzio. Lo stato di quiete apparente viene improvvisamente modificato dal vibrare di una corda, da un battito cardiaco, dal pulsare di una vena, da una goccia di pioggia nel mare. Tutto suona inesorabilmente. Il Mondo intero suona la propria immensa sinfonia improvvisata fatta di passi, respiri, pensieri. Il suono diventa musica solo quando è in armonia con questa sinfonia, in armonia con la sinfonia improvvisata del mondo.” Queste parole che Indie ripeteva a se stesso ogni volta che iniziava una nuova composizione facevano parte di quel repertorio che forse un giorno avrebbe tirato fuori per scrivere un libro. La parete opposta riportava l’inevitabile bacheca con le foto dei tour a cui avevca partecipato. Le foto, come le cose che aveva fatto, erano disposte in maniera abbastanza disordinata. Era attaccato particolarmente ad una foto fatta in olanda in cui sfoggiava la sua t-shirt preferita dell’adidas rossa con le tre strisce bianche. Una sorta di divisa che rappresentava un bel po’ di cose. Adorava quella foto perché lo ritraeva in un momento di piena concentrazione. Una concentrazione tra l’altro ingiustificata in quanto stava eseguendo un Si bemolle maggiore, un accordo per lui quasi inutile, ma a volte risolutivo. Il si bemolle maggiore sembrava essere parte della musica solo per fare numero, ma c’era e come tale andava rispettato. Di fianco alla bacheca c’era l’iconadi David Sylvian di fianco a Jimi Hendrix. Due modi di interpretare l’universo, due mondi distanti anni luce, due artisti completamente diversi. Li aveva messi lì come una termocoppia. Due punti a temperature completamente diverse e distanti che generano una differenza di potenziale. Si poteva avvertire l’elettricità generata da quei due sguardi insieme a pochi centimetri e come Indie avvicinava lo sguardo alla foto di Jimi gli sembrava sentire il wah di voodoo chile, poi si allontanava e si avvicinava alla foto di David e qui avvertiva il silenzio di “Mother and child”. Era una sorta di gioco ed i brani che si alternavano erano sempre diversi; ora “Angel” e poi “Orpheus”, ora “Drifting”, ora “Red Guitar” e così via.

Poco distante dalla termocoppia aveva messo il poster di “the commitments” di Alan Parker. Aveva visto quel film miliardi di volte, ne conosceva ogni singola battuta e sperava un giorno di incontrare Jimmy Rabbit sul ponte del Liffey a Dublino un bel giorno per potergli dire “grazie per le interviste che ti facevi da solo nella vasca da bagno, me le faccio anche io spesso” e per potergli chiedere una informazione per raggiungere TempleBar e sentirsi dire “tarn roit” (turn right) in perfetto dublinese. Forse avrebbe scelto qualcosa che già sapeva di trovare a destra solo per sentire il suono di “right” (roit) in irlandese. “Ah l’irlanda, lì me ne andrei, ma poi come farei senza la mia Salerno?”. Il campanello suonò .. i Pocket erano in perfetto orario. La posizione di Indie seduto di fronte al banco gli permetteva di assistere alla discesa delle scale degli artisti. Notava come fosse unico ed esemplare ogni singolo gesto di ogni singola persona. Chi scendeva le scale si giocava un’occasione per cambiare il proprio “accordo” che Indie aveva assegnato. “La musica è donna ed una donna deve esserci in ogni gruppo” disse mentre Libera scendeva le scale. Il primo “Si minore quinta più” si stava avvicinando per salutarlo. “Come stai pazzo?” tuonò lei. “Seduto in attesa come sempre. Oggi mi stupirete immagino e quindi mi godrò lo spettacolo da questa parte del vetro”. Gli artisti che registravano alla IndieFarm erano troppo felici di farlo lì. Indie trovava sempre il modo per farli sentire “their-self at home” e soprattutto aveva le parole giuste per caricarli positivamente. “Ci puoi giurare!” disse Francesco guardandolo fisso negli occhi scendendo le scale e giocandosi il suo Re maggiore. “State già parlando male di me?” disse invece “il nerd” scendendo per ultimo. “Hey nerd! quale server hai bucato oggi?”. Nerd era un mostro dei computer, antipatico “a mostro”, saputello e tastierista. Il mondo del digitale lo aveva creato ed egli tendeva ad esso come la terra richiama gli oggetti al suo centro. Eterea era la musica dei Pocket full of clouds ed eterea era Libera: longilinea, fisico perfetto da far girare la testa. Mani affusolate ed un talento mostruoso per la chitarra. Occhi profondi, vestita come un “dog’s dinner”, avrebbe fatto drizzare anche la torre di Pisa.

Pochi preparativi e i Pocket erano già pronti per provare la prima “cloud”. La porta della sala riprese si chiuse ed il suono con essa sparì. Le cuffie, il tempo di infilarle ed Indie veniva immediatamente proiettato nel suo acquario personale, in cui i sensi rallentavano il tempo e le cose si muovevano come viste attraverso una stroboscopica. “Che meraviglia” pensò “E’ meglio di ogni altra cosa”. Libera si chinò per prendere la sua chitarra e la indossò come un vestito che le stava troppo bene addosso. Alzò il volume ed emise un la minore per testare l’accordatura. Il sustain durò nelle orecchie di Indie il tempo sufficiente ad una passeggiata in centro shopping compreso. Un brano di 3 minuti nell’acquario di Indie durava due giorni ed egli per questo viveva più degli altri. Ma come tutti i suoi sogni alla fine qualcosa lo svegliava all’improvviso. Quel maledetto telefono squillava anche sotto la caverna della IndieFarm.

Come quando stai per attendere una cosa, ma allo stesso tempo non vuoi che accada, come quando qualcosa ti interrompe sul più bello, come una scossa di terremoto, qualcuno stava attentando all’indipendenza di Indie. Come il diavolo può tentare una fedele vecchietta all’interno della sua chiesa la ProductRecords stava chiamando sul cellulare di indie di primo mattino nella IndieFarm. Può una cosa che si chiama ProductRecords interagire con una cosa che si chiama IndieFarm? Le parole non fanno proprio match, ma si sa bene che a queste telefonate bisogna rispondere e poichè Indie aveva già parlato col “diavolo” diverse volte, si tolse le cuffie e rispose al telefono. Il diavolo gli stava fissando un appuntamento per il 30 di Novembre, il diavolo aveva ascoltato il suo materiale, il diavolo aveva capito che aveva una collocazione discografica, il diavolo aveva capito che Indie poteva essere portato, insieme al suo universo, all’inferno! Accettò l’appuntamento chiuse, rimise le cuffie, ma l’acquario si era spaccato e l’acqua era uscita fuori. Tutto quello che Libera ed i suoi stavano suonando si trasformò in un ammasso di note senza senso e lui odiava le cose senza senso. Si tolse le cuffie con violenza, le lanciò contro il vetro al chè i Pocket si fermarono di colpo e Libera gli lanciò uno sguardo che materializzò un fumetto: ” #?@!! #?@!! Che cazzo succede I?”.

Succedeva che la sua indipendenza in un attimo si sentiva minata. Sentiva come se lo stessero violando e che l’artefice di tutto questo fosse egli stesso. Causa ed effetto del suo stesso male. Succedeva che quella telefonata doveva arrivare e non doveva arrivare. Succedeva che ogni cosa che aveva detto e blaterato per anni si stava trasformando in un ammasso di cazzate urlate al vento e lo stesso vento stava portandosi via anche tutta l’ispirazione, gli occhi di Libera e le sue mani, i suoi accordi, le canzoni dei Pocket, la passeggiata in centro, il balcone di via Botteghelle, il caffè dei Mercanti, il suo viaggio in pullman, il panettiere, la stronza a telefono. Tutto risucchiato in un unico buco nero. Il buco nero dell’affare. Il buco nero del business che da sempre combatteva. L’urgenza poteva trasformarsi in esigenza. La porta della sala riprese si aprì e Libera riaprì il suo fumetto :” #?@!! #?@!! Che cazzo succede I?”

[^]

Cap.03 – La termocoppia

Non una parola riusciva a sentire, non riusciva a parlare, non riusciva a tirarsi fuori da tutto quel casino che il cervello riusciva a produrre. Noise, rumore rosa, rumore di fondo. Niente riusciva a calmarlo. Non si accorgeva più di nulla intorno a lui. Il lavoro, le persone che lo guardavano. Sembrava che fosse stato preso da un ictus. Era quella condizione che in fondo lui conosceva bene. Gli si bloccava il cervello, perché gli avevano toccato l’indipendenza o meglio l’Indie-pendenza. Gli avevano rotto l’acquario, gli avevano spento la musica. Quello che avvertiva era che dal 30 Novembre in poi forse il cerchio che lui amava si stava riducendo a poche semplici e sporche parole: deduci, scrivi, produci. A dedurre non sarebbe stato lui ma il mercato, a scrivere sarebbe stato si lui, ma in base a deduzioni tecniche e non artistiche a produrre… beh quella era la parola che più gli faceva schifo. Non riusciva nemmeno più a ripetere il suo mantra, tutto buio. Era spento. Switched off!

Come in un fade in di un brano la voce di Libera cominciò pian piano a risvegliarlo “Indie?”… “Indie?”….”Indie e che #?!! cazzo”. Aprì gli occhi, Libera gli teneva la faccia e lo guardava fisso negli occhi e gli parlava ad un centimetro dalla bocca. Sono queste le scene che fanno riprendere le persone. Prendere il viso di qualcuno tra le mani ti riporta alla vita mentre riporta alla vita l’atro.

“Nulla ragazzi riprendete a lavorare”, “Si, ma tu stai bene?” chiese Nerd, “si vai tranquillo è tutto ok”.

Ritornò tutto alla norma. I Pocket rientrarono in sala parlottando tra di loro, Indie non recuperò le cuffie ed uscì fuori per una boccata di storica aria.

Risalì le scale dell’IndieFarm e guardò fuori. I lavori a via canali non finivano mai, da anni. Aveva portato il telefono con se. Mai come in quel momento aveva bisogno di una telefonata di sfogo con Fly. Mai come in quell’istante avrebbe voluto sentire la sua voce rassicurante, dolce, esile come il suo corpo. Avrebbe voluto dirle tutto quello che sentiva e tutto quello che stava capitando con la solita certezza che l’avrebbe ascoltato. Pensò pure però che sarebbe bastato attendere ancora un pò prima di riprendersi e di lasciare tutto alle spalle a data da destinarsi. Intanto il 30 Novembre era vicino. Indie non voleva che questi pensieri potessero in qualche modo bloccargli l’ispirazione, bloccargli la sua improvvisazione. Ma ora era così doveva accettarlo. Il telefono gli vibrò in mano. Benny.

Presidente del circolo e quindi presidente della città. Uomo pieno di iniziativa e forza per andare avanti nonostante le difficoltà. Aveva preso il circolo come il paguro il suo guscio e lo portava avanti nella tempesta della burocrazia. Riusciva ad essere il Benny che paga le bollette e porta la spazzatura fuori e contemporaneamente il Benny che va alla conferenza stampa a dire che quest’anno il circolo farà una rassegna importantissima piena di artisti e contemporaneamente ancora il Benny che va nell’ufficio del sindaco a chiedere i finanziamenti. Benny era Multi-Benny. Amico di tutti e nemico di nessuno. Era la persona che ci voleva in quel momento.

“Indie ieri sera hai fatto paura, sei stato grande, ma poi te ne sei andato.. direi come al solito. Che fine hai fatto?” e poi senza aspettare la risposta: “il concerto è stato bellissimo lo sai?”. “lo immagino” replicò Indie, “lo immagino!”. “Oh ma che hai ti sento giù.” ed Indie: “no nulla solo un po’ di stanchezza accumulata ah e grazie per la telefonata. CI vediamo a pranzo. Solito?” e Benny: “sì al Line, ci vediamo più tardi”. “ok”

Il Line era il posto dove Indie e Benny si rifugiavano per parlare di musica, cultura, affari ed organizzazione. Ristorante un po’ lounge, un po’ ristorante. Gestito da un bulgaro dalla spiccata faccia simpatica e caratterizzato da una gentilezza disarmante. Chi lavora al Line sa essere gentile, sa portare i piatti a tavola, sa chiedere con gentilezza e sembra non essere mai stanco ne scortese, ne affaticato ne incazzato con il mondo. Cosa che normalmente non si trova in tutti i ristoranti del mondo diciamoci la verità.

I Pocket avevano finito e l’ora si era fatta. Stavano andando via e Libera tirandogli un bacio sulla guancia gli disse “hey riguardati, hai bisogno di riposo! e lui :”grazie ho bisogno di ben altro” guardandole il lato b.

Benny era come sempre in orario, aveva di sicuro parcheggiato la macchina su di un albero o qualcosa del genere ed ora era davanti al locale in attesa di Indie, guardando dalla parte sbagliata. Indie lo osservava da lontano e rallentò il passo per poterne carpire meglio l’umore prima di incontrarlo. Era una sorta di preparazione, un altro dei suoi riti. Scrutava da lontano le persone prima di poterle affrontare. Benny sembrava dell’umore giusto. Ottimo.

Si accomodarono, il bulgaro salutò con affetto, ovviamente ricambiato dai due. Ordinarono un gran bel bicchiere di chianti e Benny senza passare dal via :”Lo sai che dobbiamo parlare di quella telefonata di ieri vero?”.

“Certo che lo so, ma sai pure come la penso a riguardo”

“La pensi male secondo me. Max non è quello che pensi”

“Max è diventato quello che penso caro Benny. So cosa era e so adesso cosa è”

La Daybox Records che Max aveva fondato anni prima era partita con un’idea splendida: La musica suonata all’impronta. Dischi suonati in un sol giorno da musicisti che si incontravano per la prima volta in studio, di ogni tipo, razza e qualità. Ogni singola registrazione rappresentava un tema. Sul sito della Daybox troneggiava la frase: “Un giorno chiamai Peppe perchè mi scappava di suonare”. Quanto erano simili Indie e Max. Vivevano l’urgenza, ma l’esigenza aveva trasformato Max e la sua Daybox in una semplice etichetta conforme alle regole della serie B: forma canzone, ufficio stampa, agenzia di booking,… che palle.

“Non è così Indie! Max è sempre quella persona che hai conosciuto. Certo ora sta cercando di tirare su le cose.. sai la crisi è quello che è non si parla d’altro. cosa ti aspetti?”

“In culo alla crisi” tuonò Indie, “non me ne frega un beato niente. Se sei indipendente lo sei quando hai soldi e quando non ce li hai. Gli ho mandato il materiale da mesi. Mi riempie di scuse, di cose che dicono tutti gli altri. Sono profondamente deluso.”

“Ma ti passerà non è vero? Non avrai mica pensato di passare con qualche major?”

La domanda di Benny fu come un cazzotto allo stomaco. Ripensò immediatamente alla telefonata della Product, al vetro del suo acquario in frantumi, al mantra sbagliato “deduci, scrivi, produci”, al suo shock down di poco prima. Si colorò di nero in viso, e stava per riprendere lo stato di catalessi quando il bulgaro lo risvegliò portandogli il vino.

“Finché c’è vino c’è speranza” brindò Benny ed fece Indie lo stesso alzando il calice.

“Benny lo richiamerò e gli dirò quello che penso. Poi quello che ne verrà verrà!”

“Non ti scaricare che abbiamo l’intervista allo Studio35, mi raccomando”

“Sono pronto come sempre caro, e poi Nico è fantastico, Fabio è na Pasqua e Sergio n’amico”

“Ma come non sai che Sergio non sta più là?” disse Benny “ha riaperto lo studio Lag“

ed Indie: “ma tu che dici? Roba da non credere. Quindi oggi non lo vediamo? Vuol dire che andremo a fargli visita dopo l’intervista.”

“Si, ma non perdiamo tempo, che c’è la seconda serata del Festival e stasera suonano i Lef, già sai, pienone ed i suoni devono essere perfetti”

“Non ti preoccupare, stasera scassiamo tutto”

Calici in aria Indie e Benny festeggiavano il successo del Fall Festival e la rinascita del circolo, quindi la rinascita della città. Lo facevano nel posto che preferivano e lo facevano sicuri che la loro missione fosse cosa buona e sopratutto compiuta.

Una tempesta stava per passare di lì a poco, all’orizzonte del Line, nel centro della città, al centro del loro regno. Libera passò lì davanti, li vide, si avvicinò. La differenza di potenziale cominciò a farsi sentire e la corrente a circolare. La termocoppia Hendrix Sylvian era diventata la termocoppia Indie Libera. Una coppia non coppia che si elettrizzava alla visione, ma sapeva di non poter aver futuro. Indie era consapevole che la sua indipendenza fondamentalmente era totale, ma alcune barriere il fluttuare di Libera riusciva ad abbattere con il suo semplice sinuoso avanzare. Gli prese il viso nuovamente tra le mani e gli baciò la punta del naso :”Ti sei ripreso adesso?”

“Adesso sì, sono completamente ripreso, grazie.” Il suo fluttuare continuò dalla parte opposta dopo un velocissimo micro-saluto che portò l’elettricità con se verso altri luoghi, mondi e misteri. Benny aveva assistito alla scena quasi a bocca aperta, impotente, e sorpreso. Indie lo era di sicuro, quella giornata era davvero un casino.

Lo Studio35 era rosso e questo già faceva dello studio un posto accattivante. La foto di David Bowie di fianco a quella di Bregovic lasciava pensare ad un abbinamento strano, ma piacevole. Anche essa una termocoppia di tutto rispetto. Del resto è nel dualismo che si forma la crescita. Nello zero e nell’uno, nel bene e nel male, nel giusto e nello sbagliato.

Una parete ostentava i lavori sognanti di Fabio. Le sue foto hanno sempre un non so che di speciale e misterioso. Il tutto si spiegherebbe semplicemente guardando il gesto del suo click con la sua macchina fotografica spaziale. Clicca e poi fa fare un giro alla macchina così la luce insegue l’obiettivo e disegna sulla pellicola come un pittore. Bello davvero, bello davvero. “Abbiamo qui il presidente del circolo Mumble Rumble di Salerno, palcoscenico per la prima edizione del Fall Festival. Siamo in autunno, il periodo migliore per poter dare sfogo all’ispirazione ed alla creatività. Indie come mai?”

“E’ un periodo dell’anno con dei colori molto caldi, è molto malinconico, è molto neutro, per cui è come una tela su cui si può stendere un colore qualsiasi, è’ come un foglio grigio su cui puoi appoggiare tutte le nuance che vuoi. Quale miglior momento per poter dare sfogo all’arte?”

“Avete dato spazio anche alle altre arti e non solo alla musica noto con piacere” disse Nico puntando sempre il microfono verso Indie

“L’arte è una, ognuno la esprime come riesce e come sa fare. La musica è solo un tramite. C’è chi usa la parola, chi la penna, chi la matita, chi il proprio corpo, i colori. Insomma alla gente bisogna far pensare che è l’unica cosa gratis che ci è rimasta”

“Come procede allora questo Fall Festival” chiese Nico puntando il microfono verso Benny

“La risposta è davvero buona, sta arrivando gente da tutta la Campania. Stasera suoneranno i Lef e ci aspettiamo il pienone. C’è gente che chiama per prenotare posti, ma non siamo un teatro. La sala conterrà tutti quelli che riescono ad entrare” disse quasi sorridendo.

Intanto le parole cominciavano ad allontanarsi dal cervello di Indie che rientrò felice nell’acquario dei suoi pensieri. Ce la stava facendo davvero, era riuscito ad organizzare una cosa che avesse uno spessore, che fosse indipendente e soprattutto che la gente ne volesse parlare in qualche modo. Si immerse nel suo autunno fatto di cori polifonici e canti solisti a tagliare l’atmosfera come il vento spezza i rami degli alberi ed attraversa i corridoi che solo la natura riesce a creare. Si immerse nei boschi della sua mente ad ascoltare il richiamo del vento e dei passi sulle foglie. Era la sua droga, il cervello era la sua droga. Come se di colpo qualcuno alzasse il volume della tv a palla arrivò la domanda di Nico :”Indie e tu suonerai al festival?” Indie non riusciva a capire perché tutti, inesorabilmente lo dovevano svegliare di colpo. Rispose innervosito: “no, io organizzo, non posso essere presente in tutte le forme in questo festival, sarebbe un po’ come un conflitto d’interesse non credi?” poi si calmò “diciamo che sarebbe un onore per me suonare al Fall festival, ma non mi hanno voluto” disse ridacchiando e provocando l’ilarità dei presenti. L’intervista scivolò liscia da quel momento ed era anche ora di andare. Come promesso Indie e Benny decisero di raggiungere Sergio allo Studio Lag per un saluto veloce.

Lo Studio Lag forse era il posto dove aveva speso più tempo nella sua vita musicante. Con Sergio era entrato diverse volte in simbiosi su progetti alternativi di ogni genere. Con Sergio era riuscito a trovare quell’intesa che deve necessariamente crearsi tra musicista e produttore. Sergio non sempre riusciva a spiegare tecnicamente quello che voleva dalle esecuzioni e dai takes di Indie, ma ci provava a volte usando una gestualità, delle parole comuni e delle immagini per indicare la strada da intraprendere. Per esempio se voleva un suono di flanger, chorus e delay diceva “fammi un riff un pò figlio dei fiori”. Questo era Sergio e così aveva costruito il suo studio. Una caverna in cui regnava il suo mixer che cambiava posto ogni stagione. Una caverna che aveva avuto l’onore di ospitare musicisti di ogni tipo e genere. Una caverna da cui uscivano tante idee e prendevano strade molto varie e distanti tra loro. Qui la daybox records aveva iniziato le sue sperimentazioni improvvisate e qui secondo indie avrebbe dovuto portare avanti il progetto anno dopo anno senza lasciarsi fregare dalla forma canzone. Chissà forse un giorno sarebbe tornato tutto artisticamente al proprio posto senza troppi problemi, ma forse no. Le cose cambiano e Indie lo sapeva bene.

Sergio era lì che li attendeva con il suo fare solito affettuoso. Era uguale a sempre e lo studio Lag lo testimoniava presentandosi ai tre con la sua oscurità di fondo. Era uno studio in cui si riusciva a trovare una grossa concentrazione ed ispirazione. I muri erano di pietra ed appartenevano alla collina. L’acustica pressoché perfetta della sala riprese rendeva tutto più facile.

“Grande Sergio allora stasera ci vieni a trovare?”

“Perché stasera che fate?” Domandò. Sembrava sempre vivesse sul pianeta Lag e che solo ogni tanto riuscisse a scendere tra gli indipendenti umani.

“Ahee non sai del Festival al circolo?”

“Ah si quella cosa che volevi fare, poi l’hai fatta? bene mi fa piacere. Beh non lo so sinceramente.. faccio il possibile”

Il modo di dire “no non ci vengo, non ci pensare minimamente” era molto elegante ed aveva diverse versioni. Questa era quella amata da Sergio “faccio il possibile”. Ma Indie glielo perdonava sempre e comunque.

“Comunque Sergio siamo passati per un saluto veloce e per vedere se lo studio era ancora in piedi. Poi ti verrò a trovare con calma e mi farai ascoltare le tue nuove cose ok?”

“Certo cari, vi aspetto e mi raccomando stasera, scassate tutto”.

Non si è mai capito perché il termine “scassare tutto” sia così in voga e così comune in questo ambiente. Come se “scassare” fosse l’obiettivo di un musicista. Rompere cosa? Far si che la gente scassi il locale? Cosa vuol dire? Scassare gli strumenti come facevano gli who, gli Emerson Lake and Palmer ed i Clash? Scassare i timpani alle persone? Scassare l’impianto per il volume? Insomma scassare cosa? Misteri del gergo musicante.

Comunque anche Indie e Sergio erano una termocoppia a modo loro e sapevano che un giorno magari molto lontano, avrebbero fatto qualcosa di concreto insieme. Si salutarono. Benny era rimasto in religioso silenzio ed era già concentratissimo per la serata da affrontare al circolo. Il concerto dei Lef era atteso.

[^]

Cap.04 – Il concerto

Quando fa troppo caldo in autunno c’è poco da fare. Vuol dire una cosa sola. Pioverà. E pioverà tanto, tanto da far paura. Era Novembre e faceva un caldo che sembrava settembre. L’ultima volta che aveva percepito quella sensazione era stato 30 anni prima. il 23 novembre del 1980 a Salerno si avvertì il terremoto dell’Irpinia in maniera molto forte. Alle 19.34 di quella domenica infame faceva un caldo assurdo, ma il tempo era bello. Lo scenario perfetto per un terremoto che fece tutte quelle vittime. Indie cambiava umore insieme al tempo ed il tempo cambiava umore insieme a lui. Stavano per entrare in macchina quando il tempo si scatenò. “I temporali a Salerno sono fantastici” pensò. Ricordando pure quella notte in cui un mare forza 10 portò Yasmina sulla costa a Torrione. I temporali portano sempre delle cose a riva e delle paure dentro. I temporali sono il cambiamento, i temporali servono a dare una ripulita dentro e fuori. Quel giorno il temporale fu clamoroso. Il vento spezzava i rami degli alberi sul lungomare e la pioggia viaggiava orizzontalmente quasi come se volesse picchiarti e punirti. Le luci di Natale già montate volteggiavano nell’aria e rischiavano di passare dallo stato di stelle cadenti allo stato di stelle cadute. Attraversarono Via dei Principati per giungere sul lungomare. Lo spettacolo di piazza della Concordia battuta dalle forti piogge e dal vento lasciava senza respiro. Le onde che ormai non incontravano più la nave Concord, ormai smontata da tempo, raggiungevano il muretto della piazza e schizzavano sul marciapiedi. Il vento di mare portava il mare sulla terra e la terra glielo restituiva come in un gioco a due. Le barche in lontananza erano impotenti di fronte a tanta maestosità e questo rendeva Indie consapevole della forza della natura e di come essa fosse sempre e comunque parte essenziale delle sue composizioni. Il vero concerto lo facevano sempre e comunque gli elementi. Indie lo sapeva di essere sempre e solo un tramite. Il concerto non era mai il suo, il concerto quella sera non era dei Lef, ma degli elementi. I rami suonati come corde, il vento forte come le mani, il mare a fare da tappeto agli assoli delle onde. Il concerto era il momento in cui gli elementi davano il meglio o forse il peggio di se. Violenza ed amore, terrore e pace, liberazione e costrizione, attesa e sconvolgimento, luce e buio tensione e risoluzione. Il concerto era iniziato prima del tempo e Indie aveva iniziato a comporre dentro di se. Gli accordi si susseguivano e si intrecciavano come gli alberi ed il vento. Le note gli apparivano chiare davanti agli occhi, tutto si trasformava in un unico spartito su cui Indie viaggiava con la sua penna a scrivere con la semplicità stessa con cui l’acqua bagnava tutta la città, con la stessa violenza ed immediatezza con cui il mare stava per riprendersi la piazza. Mai un secondo per rilassarsi in quegli istanti infiniti, mai un minuto per gridare stop o per pensare ad una tregua, la sua era una fuga verso il punto coronato. Si aggrappava alle sue crome per giungere alle semibrevi del finale, ma era presto e doveva farsi accompagnare dalle semicrome che all’improvviso potevano ritrasformarsi in minime e ritardare la sua sublimazione. Il tutto coronato da un’armonia di accordi che non avrebbe mai pensato senza tutta quella violenza. Il concerto era iniziato e Indie lo stava suonando dentro mentre gli elementi lo suonavano fuori. Il concerto degli elementi finì con un sol maggiore. Niente di più che un rassicurante sol maggiore.

Arrivarono nel quartiere del circolo, ma il circolo era il quartiere e li accolse immediatamente. I Lef erano lì pronti per il soundcheck puntualissimi e Benny corse incontro ai britannici fratelli Rod e Don per aiutarli nell’impresa prima della grande serata. Si di un’impresa si tratta. Il soundcheck è sempre un’impresa. Riuscire a rendere tutto come il pubblico se l’aspetta. Riuscire a mettere i suoni in una posizione spaziale adatta al posto ed adatta alla strumentazione che l’artista usa normalmente è una cosa non facile. Ma Benny conosceva molto bene il suo mestiere ed essendo anche il Benny di cui tutti si fidavano non c’era dubbio che ogni cosa avrebbe quasi spontaneamente occupato il suo posto senza problemi. I bassi avrebbero fatto il mestiere dei bassi, gli alti altrettanto ed i medi sarebbero rimasti quasi a casa come nelle migliori famiglie. “Ah se tutti facessero sempre il proprio mestiere, si vivrebbe in un mondo migliore non pieno di imbecilli soprattutto”. “Indie il tuo telefono.. Indie?.. sta vibrando..” Il telefono era lì che vibrava e dichiarava il momento dell’altro concerto. Quello delle parole rassicuranti. Il concerto della vicinanza delle parole di Fly. Ogni volta arrivavano a lui come una coccola in viso. Ogni santa volta erano buone parole per lui. Ogni volta si sentiva al sicuro e protetto. Eppure era l’unica cosa che Indie e Fly facevano era telefonarsi. L’introduzione era quasi sempre la stessa. Un rassicurante “buona sera” trasformava l’audio medioso del telefonino in un deciso la maggiore suonato in un Fender Twin. “Come stai? musa della mia serata?” “bene, tu? mi sa che oggi non stai tanto bene visto il tempo e soprattutto visto che non mi rispondi a telefono!!” Aveva come sempre centrato l’obiettivo. Fly non vedeva mai Indie, ma guardava attraverso i suoi occhi e viveva nel suo pensiero. Sapeva ogni singolo pensiero e riusciva con una scioltezza unica a suonare le sue corde per sempre, da sempre. “Hai ragione Fly, sono un pò distratto da tutto questo suonare degli elementi, sono sconcertato, carino no? sconcerto nel concerto, sono anche un comico mal riuscito non trovi?” e sorrise e così sorrise anche lei. “Sei la solita capa pazza, ma ti perdono e tu sai che lo faccio sempre”. Fly era l’unica entità che riusciva a perdonarlo sempre e comunque. Fly viveva, o meglio esisteva per perdonare Indie e tutte le sue cazzate.

“Indie vieni” tuonò Benny chiedendo aiuto e Fly :”sei impegnato lo so ci sentiamo domani baci”. Riusciva a chiudere il telefono ad una velocità impressionante. Spesso Indie non riusciva a salutare, ma del resto lo diceva sempre: “io non conosco una sola persona normale”. “Arrivo” disse e si infilò in quello che la sera prima era stato il suo palcoscenico!

Si rese conto che non aveva mangiato e che il suo stomaco sempre un po’ dolorante si stava facendo sentire. Non aveva molta voglia, ma doveva pur farlo anche per affrontare il resto della giornata che si presentava impegnativa. Non poteva perdersela per nessuna ragione, tranne per la solita unica inesorabile ragione. Se all’improvviso gli avrebbe preso così non c’era che fare. Avrebbe preso la strada di casa e ciao a tutti senza salutare come al solito. Chissà forse questa volta ce l’avrebbe fatta a resistere. Era comunque più forte di lui, se gli succedeva di vedere qualcuno suonare, poi stava male e doveva farlo anche lui. Magari soltanto per unirsi all’universalità della cosa, magari solo per contribuire alla sinfonia improvvisata del mondo. Per lui era solenne ed importante. Non c’era un modo per suonare non pensare a quello che avrebbe poi scaturito nel mondo. Non c’era modo di farlo suonare e basta. non c’era verso, punto. Ogni cosa doveva necessariamente avere un significato oltre la cosa in se. Indie era così, che piacesse al mondo oppure no. Eppure sembrava che potesse piacere al mondo a giudicare dalla telefonata della Product. E proprio quel pensiero che ogni tanto tornava e lo faceva tornare in quello stato di catalessi profonda in qualunque posto si trovasse. Ora però c’era da ascoltare il soundcheck ed assicurarsi che tutto fosse a posto. I lef erano in ottime mani, Benny era un campione, era il fonico che ogni gruppo voleva con sé, ma non poteva essere di tutti ovviamente per cui Benny era del circolo e quindi di tutti.

“Allora ragazzi se avete montato tutto cominciamo, prima la cassa, costante forte e sempre alla stessa dinamica” disse Benny ed il batterista cominciò. Ogni qualvolta una fonte sonora produceva un suono costante e ripetitivo, Indie era lì ad improvvisare con la mente. Immaginò dapprima un violino irlandese che suonava il suo jig intorno alla cassa battente quasi per schernirla, girando intorno a lei come per sedurla. Un loop interminabile di scale unite al ballo di chi le suonava ed unite allo sforzo delle dita che dovevano “salirle”. Fisicamente, mentalmente al violino si aggiungeva il tin whistle all’unisono ed insieme fornivano quel tappeto di prato verde che solo la musica irlandese ti può dare. Benny gridò “Rullante” e l’inserimento di quest’altro suono garantì all’immaginario contrabbasso di inserirsi con semplicità in quel concerto di immagini e pensieri partorito dalla mente di Indie. Poi all’improvviso stop, bisognava provare il basso “Basso!!” e quei folletti che avevano occupato la sua mente svanirono immediatamente per fare posto a dei fantasmi glam del passato impostati, con lo strumento ad altezza ginocchia e i capelli a coprire il viso. L’ingresso della chitarra rappresentò il momento più rock del suo concerto mentale e le note della pentatonica trapassarono lo stage spaccando le lampadine delle sue sinapsi. Il concerto era ora questo, prima la natura, poi le parole di Fly ed ora la sua mente. Nulla era quello che sembrava, lui lo sapeva bene. Nessuno era in armonia con la natura come lo era Indie, ma Indie era al circolo ed il circolo era la natura.

[^]

Cap.05 – L’abbraccio

Luci spente, desiderio di essere sul palco, attimo irripetibile, gesti velocissimi e frenetici che ai suoi occhi rallentavano fino a fermarsi. Emozioni da vendere e da comprare. Esternazioni, luci spente. Sudore, ansia, cuore a mille. Tutto era tutto, il circolo era tutto, il concerto stava per iniziare, il circolo era il concerto. Indie era rimasto quella sera, forse perché dentro di sé sperava che Libera quella sera venisse ad abbracciarlo almeno per un po’. Ma sapeva che non poteva avere più di questo, forse non voleva niente altro che questo. Forse l’abbraccio era la cosa di cui aveva bisogno. Un abbraccio è uno scambio di energia senza precedenti. Non esiste al mondo materia capace di generare tanta energia multimediale come un abbraccio tra due persone. Libera era cintura nera di abbraccio. Indie era cintura nera di abbraccio, il loro abbraccio poteva durare anche giorni e l’energia avrebbe tenuto accese le luci di Salerno per due natale di seguito. Luci spente, nessun abbraccio ancora. Luci spente e la gente aveva già superato le aspettative. C’erano tutti i demoni e tutti gli angeli che il circolo sapeva ospitare. Chissà se veniva Jamba, chissà se avrebbe portato lì i suoi singolari cappellini. Avrebbe abbracciato anche quelli. Prese un bicchiere di vino. Un cabernet, per sentirsi più nordico del solito. Più biondo e con più lentiggini, anzi più rosso del solito.

Qualcuno gli mise le mani davanti agli occhi prendendolo da dietro. Toccò le mani speranzoso. Mani affusolate, mani che suonavano senza dubbio, mani che parlavano ai suoi occhi. Si sentì sussurrare: “Lo facciamo?” e a quel punto avvertì la conferma di quello che sperava. Si girò tenendo gli occhi chiusi e si aprì in un abbraccio in Mi minore settima nona. L’accordo che amava di più perché lo portava in luoghi lontani, più belli di quelli che conosceva normalmente. Più profondi, più inimmaginabili. Immaginava oltre l’immaginabile. Il suo abbraccio fu corrisposto con un La minore sesta nona, i due accordi si unirono in una sola speranza. Libera Indie, la termocoppia libera ed indipendente. La sua speranza, il suo modo per fuggire era arrivato. Non riusciva a capire come faceva a sapere sempre dove fosse, come se Indie non si fosse mai mosso di lì, ma il circolo era il mondo ed in realtà bastava abitarci per capire dove fosse. Libera non aprì gli occhi e continuò a sussurrargli che era tutto quello che voleva. Voleva portarlo fuori da lì per poter volare nella loro semplice ed eterea indipendenza. Tutto il resto era il mondo che Indie non vedeva e forse non voleva vedere da tempo. Il mondo fuori dal suo acquario era un mondo che forse non avrebbe voluto vedere più. E come sempre accadeva un mi basso suonato da uno dei brit-fratelli dei Lef per risvegliarlo dal suo stato e farlo tornare a quest’altro mondo.

Luci spente e “punto interrogativo” abbracciavano la sala in un unico caldo brano psichedelico. “Sei ancora in tutto ciò che sono ed in tutto ciò che sarò!” cantavano i Lef ed Indie faceva sua questa frase ripetendola, sussurrandola a Libera come se fosse la sua unica speranza. Luci spente ed I lef suonarono per un’ora e più. L’abbraccio durò così tanto, Indie abbracciava Libera ed i Lef abbracciavano la sala del circolo che abbracciava tutti in un unico caldo “essere” nel mondo. La serata finì così ed Indie si ritrovò nel suo letto come se non si fosse mai mosso di lì.

[^]

Cap.06 – Il viaggio

decise di partire all’improvviso. nulla poteva fermarlo. così senza preavviso scelse di lasciarsi tutto dietro. il circolo, lo studio, libera, le storie sul pullman e la stronza a telefono. andó alla stazione e scelse siena. i colli e le cantine sociali. il vino e le distese verdi. tutto quello che desiderava era stare fuori dalla sua condizione e lasciare tutta quella gente e portare la sua indipendenza in giro. scelse il treno perchè doveva guardare fuori. scelse il treno perchè è un’altra realtà piena di umanità accalcate che non si conoscono ma a piccoli gruppi devono per forza interfacciarsi. scelse il treno perchè poteva guardare il paesaggio viaggiare ad un’altra velocità. scelse il treno perchè era piú poetico di ogni altro mezzo. nessun mezzo di comunicazione con l’esterno per ancora un po’. il suo viaggio. la sua traccia da seguire. un mondo da capire e da scoprire ogni volta di più ogni tanto un po’. scelse il finestrino, dove altro poteva sedersi uno che sognava. scelse di guardare anche i marciapiedi della stazione non voleva perdersi nulla. scelse anche gli abiti giusti per il suo viaggio, voleva sentirsi un fuggitivo elegante e non uno che scappa e basta, voleva sentirsi uno che sa dove va anche quando non sa dove sta andando. voleva appunto sembrare. solo nello scompartimento, solo nel suo mondo e solo con tutta la sua solitudine a servirlo. c’è un momento della partenza che rende sempre tutto molto speciale. è l’attimo in cui il macchinista del treno su cui stai per partire lascia il freno ed il bestione comincia a muoversi. è quello l’attimo in cui il tuo cervello ti fa sentire già lontano. il treno ha fatto meno di un metro e tu ti senti già a migliaia di chilometri di distanza dal posto da cui stai scappando. è solo quell’attimo e niente più. il tuo viaggio potrebbe fermarsi lì. riuscire ad avvertire quella sensazione e niente più. quell’attimo non tardò ad arrivare, quell’attimo era lì. come una preghiera il suo mantra preferito tornò a viaggiare nel suo cervello: respiro, urgenza, cervello, mano, corda, aria,respiro, urgenza, cervello, mano, corda, aria, respiro. infilò le cuffie ed entrò più a fondo nel suo mondo: respiro, urgenza, cervello, mano, corda, aria, respiro, respiro, urgenza, cervello, mano, corda, aria, respiro. “il viaggio” era un brano della Empty Daybox, perfetto per un viaggio. un colpo di accelerazione ed il treno, Indie, il mantra e la sua solitudine erano già verso un altro obiettivo. raggiungere la meta desiderata lasciandosi dietro una gabbia di sensazioni. non voleva pensare a quella telefonata, non voleva pensare a quell’abbraccio, non voleva pensare. voleva solo viaggiare e lo stava facendo nel migliore dei modi, nel migliore dei mondi, il suo, la sua mente, il suo mantra, la sua musica, la sua solitudine. indie era solo e se ne stava rendendo conto. l’indie-pendenza significava solitudine, e lui la viveva così, in un treno, con il paesaggio che scorreva e le chitarre a fargli da sottofondo. indie era solo, indie non era solo. la porta dello scompartimento si aprì e pensò: “oddio no, non voglio nessuno, avrei dovuto prenotare tutto lo scompartimento”. un essere umano dalle fattezze molto simili alle sue entrò nello scompartimento. le umanità accalcate, le solitudini di quel viaggio si stavano incontrando. indie guardava l’altro e l’altro guardava indie ed in realtà sembravano guardarsi allo specchio. sussulta il cuore a luci spente, sussulta il cuore con il paesaggio che si muove fuori, sussulta il cuore. pochi istanti ed i due indie erano già in sintonia sulla stessa nave senza rotta. pochi istanti ed una delle cuffie era nell’orecchio dell’altro e pochi istanti e le mani si toccavano. sussulta il cuore, sussulta il treno, non era possibile, indie vedeva se stesso e lo amava come non mai. indie vedeva quegli occhi e non voleva sapere a chi appartenessero se non a quell’essere umano che era troppo se stesso. indie, fulminato da un’umanità accalcata, indie fulminato dalla sua stessa essenza, indie nel suo viaggio amava indie.sussulta il treno, galleria, luci spente, luci spente come la sera prima, luci spente e quelle labbra che si avvicinano, no, non puoi, non sei tu indie, luci spente, ancor di più luci buie, la mente, l’acquario, il mantra, tutto perfetto, indie conosceva se stesso, indie amava se stesso. sussulta il treno sussultano i due, il paesaggio fuori corre nuovamente più veloce di prima, l’altro si alza e va via. indie riprende la sua cuffia ed il treno rallenta. rallenta il treno e rallenta indie. il cuore a poco meno di prima, sempre meno, il cuore di indie è felice, il cuore di indie pulsa come se nulla fosse successo. freno, rumore, odori di passato, stazione. nessuno aveva interrotto quell’attimo di eternità e di verità, nessuno aveva interrotto indie nel suo amarsi profondamente. nessuno aveva visto ne sentito indie amare nemmeno quella volta. la sensazione di ripartire si fece nuovamente sentire all’atto del rilascio del freno. solo che il treno viaggiava per un po’ in direzione opposta. è quella mostruosità che si manifesta quando i treni si fermano nelle stazioni che hanno il termine. come dire: “sono partito, ma ora torno”. non era così, non poteva essere così, ma sembrava così. sussulta il treno e l’ipod trasmette “le pareti” di Nicodemo. “complicarsi è bellissimo, gli spazi vuoti non esistono”. meravigliosa frase, meraviglioso brano. indie si complicava ogni giorno di più e nulla faceva pensare ad una via che lo portasse verso una stabilità. del resto la stabilità non poteva essere indipendente. la stabilità è dipendente. “ascolta il silenzio assordante, io giuro che ho tentato di essere normale, di non parlare con le pareti sporche di rabbia che ho e non mi accontento di un colore solo, voglio restare solo, come una volta, ancora una volta voglio restare solo….” indie pensò:”geniale questa frase come è geniale il suono di questo brano, adoro nicodemo, adoro nicola e tutto quello che scrive”. si staccò da quella realtà ed uscì dalla parte superiore del treno per guardare tutto da un altro punto di vista. salì forse un po’ troppo fino a vedere le due spine dorsali una immobile e quella che saliva verso su, gli appenini ed il treno. uno costeggiava gli altri e cercava di interpretarsi segnandone il profilo. decise di andare più su per avere una maggiore visione di insieme. l’italia vista da lì sembrava un paese meraviglioso, immerso in un mare bellissimo e non in un mare di guai. e come nelle peggiori storie cercò di ritornare giù senza riuscirvi e pensò “oddio sono andato troppo su, qualcuno mi fermi”. E la voce di Libera lo fermò: “ma che fai dormi?”. il suo treno, siena, il volo tutto risucchiato da un altro buco nero. non guardò negli occhi Libera e si rese conto che aveva sognato di viaggiare.

[^]

Cap.07 – Message in a bottle

“woke up this morning, i don’t believe what i saw” regnava nella stanza. la voce di sting e la musica dei police. che meraviglia svegliarsi in do diesis minore nona. peccato per il viaggio poteva essere adesso lì a sorseggiare del rosso di montalcino in piazza del campo e non curarsi della serata finale. un nuovo intervento al circolo e nuove persone da convincere a resistere e combattere questo sistema ignobile che ha distrutto la musica e l’arte in genere. Era consapevole che anni di governo assurdo avevano portato la sua nazione ad un impoverimento non solo economico, ma anche e soprattutto culturale. una involuzione studiata nei minimi termini fino a rendere buona parte della popolazione un ammasso di stupidi ed invasati pronti a subire e non a reagire, pronti ad eseguire e privati della facoltà di pensare. La televisione era il cervello di ogni persona e dettava legge. La televisione aveva detto e la gente pensava “Ipse dixit”. Non riusciva a sopportare questa cosa come Neo in Matrix non riusciva a capire perché qualcosa non gli tornava. Ad Indie molte cose non tornavano. I suoi viaggi senza ritorno, il suo acquario immaginario, i suoi abbracci. c’era qualcosa che non tornava, ma per tornare era andata da qualche parte. Indie quella parte proprio s’era perso. Non sapeva da dove veniva e non sapeva se poteva tornare in quello stesso posto misterioso e sconosciuto che forse era la realtà. “Colazione a Santa Lucia”. “Vai!” Libera si era trattenuta con lui, come sempre sapeva dove essere e dove trovarlo. Misteriosamente era sempre di fianco a lui a dargli forza a mantenerlo sulla strada del ritorno alla realtà. “Sendin’ out a sos, sending out a s oooo s”. Sì di quello aveva bisogno, un messaggio in una bottiglia possibilmente non di brunello, che qualcuno potesse leggere per riportarlo a galla. Di primo mattino Indie era simpatico con un tacco a spillo sui coglioni. Un umore fradicio e scontroso. Luci accese, ma era il sole. Un sole arrivato ad asciugare il giorno prima del concerto violento degli elementi. “Oggi se ne è ricordato” sussurrò Indie pensando a Dio. “Oggi si è ricordato che esistiamo e ci sta asciugando i capelli”. “Non essere sempre così duro con Dio, Indie. Del resto è grazie a lui che sei ancora qui”. “Dovrò pur sempre incontrarlo da qualche parte no? Nelle scale magari, quando rientro, oppure al centro storico seduto a sorseggiare un caffè nei mercanti, oppure che so da Titta in galleria mentre guarda un quadro di arte moderna. sempre dovrò recuperarlo da qualche parte. E li gli direi, hey ciao, ah tu sei? non sapevo fossi donna.. mah comunque sono arrabbiato lo stesso con te, nonostante tu sia la donna più bella del mondo.. del resto l’hai fatto tu”. E sorrise come un ebete a queste sue divagazioni religiose “de noi artri”. Libera era lì di fianco a lui e pensava “quando tornerà?” Indie era lì di fianco a lei ed ascoltava i suoi pensieri ed alle sue domande a cui non aveva risposta, ma capiva che era troppo difficile anche per lei sopportare una situazione come quella. Come liberarsi di un cervello se non viaggiando? Si incamminarono dopo essersi cosparsi di colla e lanciati nell’armadio per vestirsi. Indie adorava il fatto che Libera vestisse come un attaccapanni. Ognuno passa e ci appoggia qualcosa sopra senza badare all’assonanza dei colori oppure alla forma dei vestiti, oppure semplicemente se uno vada dentro l’altro. Libera vestiva come un attaccapanni. “Lascerei un bel messaggio nella bottiglia nel mare salernitano” disse Indie “chissà chi lo leggerebbe mai. il mio sos” ci scriverei: “tiratemi fuori da sto casino. Indie!” e basta. “mi troverebbero secondo te?” rivolgendosi a Libera. “io ti trovo sempre. so dove sei, so dove forse andrai, sono qui, accanto a te. perché dovresti spedire un sos, alla fine sempre da me devi tornare.” Indie non sapeva come prendere questa notizia. Fatta colazione Indie decise comunque di allontanarsi e di recarsi nel suo parco giochi preferito: il supermarket. Quando entri in un supermarket il tempo, sia la “misura del” che quello metereologico si annullano completamente. Che siano le 10 del mattino o le 7 di sera le luci al supermercato sono sempre lì accese, costanti e gli odori si somigliano un pò tutti. Tutti quei colori tutti quei prodotti a disposizione di chi li voglia scegliere. Tutti i prodotti sono lì speranzosi di essere scelti e quindi portati fuori da quella eterna piattezza di luci, di facce e di rumori. Di solito la radio all’interno di un supermercato produce spazzatura mediosa. Chi ci lavora all’interno di solito ti guarda e ti chiede con lo sguardo “portami via di qui” chiunque tu sia e qualnque cosa tu faccia. “ti prego, portami via di qui”. Indie doveva comprare la sua schiuma da barba preferita e se riusciva a vincere sulla propria coscienza un pacchetto di patatine light. Si una droga senza eguali. Si infilò nel supermarket di via Arce e salutò tutti essendo una specie di celebrità del posto. Salutò come saluta la first lady quando passa in pompa magna. si recò al banco detersivi e driiin il telefonino. Fly voleva riportarlo alla luce fuori di lì. “Buongiorno”, ed il mi minore settima nona risuonò nuovamente. “Ciao Fly, mi porti via di qui?” “Che c’è? sempre più smanioso ed ansioso di sempre?” “sì ho bisogno di uscire di qui, da tutto, pensa che l’ho sognato” “Ti senti pronto dunque?” “Penso di si, vediamoci” “Di nascosto però” tuonò lei “certo di nascosto, altrimenti che succede se ti incontri con Libera?” l’alfa e l’omega, l’uno e lo zero, il bene ed il bene, il giorno la notte. “ora chiudiamo però t irichiamo io” disse Indie, ma lei “lo sai che non puoi, solo io ti posso chiamare, e saprò quando farlo”. Chiusero la conversazione intanto Indie aveva recuperato la sua schiuma e perse contro la sua coscienza. Niente patatine light, niente giro nel supermarket a vuoto, la telefonata di Fly gli aveva dato come sempre una spinta nuova, un desiderio di uscire da quel turbinio di follie e situazioni incerte. Uscì e Libera era lì: “sapevo di trovarti qui”, “so che lo sapevi” disse lui “ti ha chiamato vero?” e Indie che non sapeva dirle bugie annuì. Il suo message in a bottle era stato comunque lanciato e chissà se fosse stato mai letto e considerato reale. “Passiamo dai miei?” disse lui “perché no, faccio spesso quella strada” rispose quasi sorridendo Libera.

[^]

Cap.08 – LoveLife

Mise su le cuffie e partì Lady Killers dei Lush, pezzone un po’ da teenager, ma gli piaceva da morire. Gli dava la giusta carica per affrontare la passeggiata verso la zona orientale. “Hey you the muscles and the long hair, telling me that women are superior to man” e le chitarre di Emma Anderson e Miki Berenyi con le loro voci regnavano allo stesso modo sognanti e cazzute. Il ponte tra lo shoegazing ed il dream pop degli anni novanta finché Chris (il batterista) non decise di suicidarsi. Indie aveva comprato il biglietto dei Lush al Tunnel di Milano, ma il concerto fu annullato proprio per la decisione di Chris. Indie e Libera arrivarono in quel della zona orientale, poco lontano dal circolo, quindi poco lontano dal mondo. “I miei” di Indie consisteva in una vecchia zia Giulia che viveva da sola ancora autosufficiente nonostante l’età avanzata.

Non appena li vide zia Giulia disse:”eccoli qua Sid e Nancy, datemi subito una sigaretta altrimenti non riesco a parlare con voi”. “Zia lo sai che ti fa male fumare”. “Mi fa male, ma lo sai anche tu che non è un problema più alla mia età. tu non devi fumare” ed Indie:”infatti non fumo. tiè” e sorrise come solo un nipote può fare. Zia Giulia era una ottantenne resistente e comunista fino all’osso anche se in passato si era trovata a votare un po’ in giro, senza ritegno da destra a sinistra passando per l’inevitabile centro e salendo e scendendo tra bassi ed alti. Adorava Indie per il fatto che lo trovava davvero indipendente e capace di reggersi da solo in tutte le cose che realizzava. Mai un problema da quando aveva iniziato a vivere da solo. Indie amava risolvere i problemi da solo, Indie non amava mettere in allerta tutti. ma tutti per lui erano zia Giulia e nessuno più. Nella sua vita aveva solo lei e nessuno più. Zia Giulia preparò il caffè con il suo rito personalissimo e mentre lo faceva lo spiegava per l’ennesima volta al nipotino preferito ed unico : “Prendi la parte inferiore della ciofeca e riempila fino alla valvola, si ma metà valvola non tutta altrimenti viene lento. Inserisci il filtro e dai un colpetto con il dito indice al centro di esso. Se vedrai zampillare l’acqua dai buchi vuol dire che sei sulla buona strada, se invece una volta inserito il filtro, vedi una piccola pozzanghera d’acqua al suo interno stai sbagliando e devi ricominciare tutto daccapo. Dai giusto due colpetti, non di più altrimenti l’acqua se ne esce. poi datti da fare con il caffè creando una bella montagnella, ma inserisci sempre piano un poco prima e poi schiacci con il cucchiaino e poi ne metti ancora un pò fino a che non si forma una bella montagnella. prendi la parte di sopra della ciofeca e la stringi ben bene. poi niente fretta: <> traduzione: se aspetti che bolle l’acqua in una pentola non bollirà mai. fuoco basso Indie mi raccomando, basso basso: <> traduzione: il caffè deve salire piano piano.” Il suo dialetto era un misto tra costiera amalfitana, salernitano e napoletano classico. Una mistura multi-fonica che Indie adorava ancor più della zia stessa. “<> traduzione: quando io morirò tu dovrai fare il caffè così capito?. Servì il caffè e tutti ne bevvero con piacere. Il caffè di zia Giulia era un toccasana per Indie in versione family-man. “Ma mo che fai?” chiese al nipote pur conoscendo la risposta. “Eh zia ho sempre la indiefarm, e vado in giro a farneticare che voglio un mondo migliore. stasera sono al circolo per la serata finale che devo concludere il festival col botto” Non finì nemmeno la frase che Benny chiamò sul telefonino:”Indie allora dove stai?” “sto da zia Giulia, ti raggiungo tra poco, pranziamo insieme?” “sempre se sei da solo, che a quanto pare ultimamente stai viaggiando accompagnato, o sbaglio?” disse benny insinuando, “non sbagli, rompicoglioni, non sbagli, vengo da solo” non guardando Libera e scegliendo il futuro della sua giornata da solo. Si congedò da quell’ambiente a lui famigliare e si congedò successivamente dalla sua ormai inseparabile e si trasferì al circolo, si trasferì nella città che il circolo rappresentava.

Di nuovo le cuffie per il suo viaggio: “Maybe I should make you stay away, so you can really concentrate on where you are today” e ripeteva insieme all’i-coso le parole dei Lush. Cercò di concentrarsi e di pensare a cosa dire la sera al circolo. Come colpire la gente con un finale schiacciante, come colpire i musicisti che sempre lo avevano in qualche modo ascoltato con qualcosa di nuovo e strabiliante. Pensò “quasi quasi mi porto la chitarra così cerchiamo di capirci ancor di più”. Prese il telefono e chiamò Benny: “Hey, lascia un canale libero per me stasera” “certo il microfono è già montato” rispose Benny, “no caro, mi serve anche un jack strumenti”,”noooooo non mi dire, non vorrai mica suonare stasera? vedi che mi commuovo!” Indie non suonava da troppo tempo in pubblico e stava scegliendo di farlo proprio quella sera. La sera conclusiva del fall festival. Sarebbe stato un onore per Benny, un onore per il circolo ed un onore per il festival stesso. un gatto si avvicinò ai piedi di Indie e cominciò a miagolare incessantemente. “Quanta povertà” pensò, “anche gli animali hanno fame in questo posto, quanta tristezza e quanta claustrofobia in questo dannato posto” e poi rivolgendosi a Benny: “si ho deciso, stasera lo faccio!”. Benny quasi non tratteneva l’emozione era l’occasione della sua vita, fare i suoni per Indie la sera finale del fall festival il giorno conclusivo. Una serie di eventi che avrebbero portato una marea di gente, ma bisognava fare pubblicità. Allora si affrettò di corsa a condividere notizie su twitter e a ricevere centinaia di retweet dalla sua rete. Tutti volevano vedere di cosa sarebbe stato capace Indie quella sera, tra parole e suoni, tra parole ed ispirazione ed improvvisazione. Benny ci credeva, poteva essere davvero la serata conclusiva di un’epoca intera di sofferenze. Indie aveva deciso di risalire sul palco.

[^]

Cap.09 – Fall Festival

“Be different, stay independent” questo recitava il sottotitolo del manifesto: “Salerno Fall Festival”. e più giù l’immagine di un albero senza foglie e chioma a rappresentare la perfezione della natura. Le radici, le roots, dell’albero erano rappresentate da celebri improvvisazioni divenute un cult per ogni musicista. John Coltrane, Bird, David Guilmour, Pat Metheny, Wes Montgomery e via discorrendo. “It begins to tell, round midnight” era il primo evento in programma per la giornata conclusiva. Un gruppo jazz avrebbe aperto la serata con una fantastica versione di Round Midnight di Telonious Monk, voce femminile, pianoforte, flauto traverso, contrabbasso e batteria. A ricordare quella meravigliosa versione di una fitzgerald ormai invecchiata del 1979 a Montreux. “I do pretty well, till after sundown, Suppertime I’m feelin’ sad But it really gets bad,’round midnight” risuonava nel suo cervello come Indie si avvicinava al manifesto. Pensava a quante volte l’aveva sentita cantata da Libera quella canzone, e pensava a quanto fosse strano vederla suonare da altri quella sera. Il programma prevedeva poi il concerto dei Pocket full of clouds ed infine il suo intervento. L’intervento conclusivo per dare il colpo finale che tutti aspettavano. Benny intanto stava preparando anche la stampa al ritorno sul palco di Indie e non credeva ancora che sarebbe successo. Benny credeva molto nella musica di Indie, soprattutto perché non la capiva fino in fondo e quindi si dava una possibilità di ascolto in più anche per darsi motivazioni diverse dalla solita solfa che era costretto a volte ad ascoltare. E poi quello era il Fall Festival. Fall come autunno, fall come fall out, come caduta in basso, fall come cascata, fall come autunno. Avrebbe suonato l’autunno probabilmente Indie. Di sicuro avrebbe improvvisato qualcosa, non si sarebbe preparato niente per quella sera. Del resto il suo Fall Festival era nato sull’improvvisazione. L’autunno era soltanto una delle stagioni improvvisate che il mondo ti sa proporre ogni anno. Quell’autunno gli elementi avevano veramente fatto i capricci, avevano di certo fatto sentire avvertire la propria forza. L’aria era gelida, quella sera, quasi a sottolineare che il momento era importante, come il natale lo è per alcuni. Il freddo, ma non la neve, a Salerno non c’è. Il freddo che ti taglia la faccia e poi nella zona orientale tiravano tutti i venti della rosa. All’incrocio poi tra il circolo, le scuole e la banca non ci si annoiava mai da questo punto di vista. In do minore questa versione di round midnight, perchè in mi bemolle è quasi impossibile, arrivava dalle finestre del circolo il soundcheck. Indie prese una birra, e cominciò il rituale dell’alcool a stomaco vuoto. Non fumava, ma l’alcool gli piaceva. Benny soddisfatto dietro al mixer brindò con lui al solo pensiero di vederlo con la chitarra in braccia di li a poco nella serata. Libera non c’era, gli serviva una telefonata. La telefonata che lo avrebbe incoraggiato a dare il meglio di sè per “risvegliarsi” dal torpore del non suono. Chiamava a sè l’evento della telefonata come un animale emette il suo richiamo d’amore, come un pavone mostra i suoi colori. Intanto il suo stato di concentrazione lo portò nuovamente nel suo acquario ormai preferito: respiro profondo, luci basse dentro, luci forti fuori. respiro profondo ancora e ansia, ormai tanta ansia. come un accordo di quinta aumentata la tensione saliva dentro di se. frastornato dalla sua stessa musica che stava in quel momento componendo senza strumento. Le braccia immobili gli rendevano le cose difficili, ma la mente, ah la mente, quella si che volava veloce, quella si che emetteva il richiamo, quella si che gli permetteva di vibrare ancora come una foglia prima di cadere a terra in autunno. fall, fall, fall again in uno stato di quiete apparente. La notte dentro Indie ed il giorno negli occhi di chi lo guardava. Egli nel suo stato acquoso e gli altri allo stato solido. Egli nelle luci basse, gli altri nella luce azzurra e forte. Tentò di muovere una mano e subito l’acquario si ruppe nuovamente e fu risucchiato tutto nel buco nero della sua realtà. Il telefono vibrava, il richiamo aveva suscitato quell’attimo di sopravvivenza che prendeva il nome di Fly sullo schermo del suo smartphone. Rispose di getto:”stasera suono sul palco”. Fly non credeva a quelle parole e gli disse qualcosa che gli fece ricordare che cosa gli provoca suonare. Gli ricordò che è un’emozione un pò troppo forte, ma se vuole rischiare sarà ben lieta di ascoltarlo anche da lì. “Ma dove sei?” disse Indie “Dove vuoi che sia?” “Hai ragione domanda stupida, ma lo sai ci provo di solito per riuscire a capire per bene i tuoi spostamenti. Sai oggi mi sento particolarmente euforico, e non posso assolutamente fallire. Tutto dipende da come andrà questa serata finale.” Poi realizzò, “ma mica mi starò dando troppa importanza? chi vuoi che se ne importi di me se non me stesso? e Fly, e Libera, e Benny, e zia Giulia, insomma la lista cresce forse a qualcuno frega.” Fly disse: “non pensare a Libera, dobbiamo fare in modo che tu riesca a suonare indipendentemente da lei ” e lui:”lo sai che non sempre riesco a farne a meno, è una parte importante di me, sa sempre dove trovarmi, sa sempre dove sono, adesso poi.. lo sanno tutti…” “ok spero di vederti dopo” sussurrò Fly ed Indie “si, come no..” disse con un pizzico di malinconia. Uscì fuori dal circolo a respirare.

“Ah, l’aria di novembre è il vero fall festival, le foglie a terra i colori caldi, novembre mi aiuta a respirare diversamente. Novembre in qualche modo mi appartiene più degli altri mesi. Novembre è freddo fuori e caldo dentro” Indie realizzò che ogni tanto gli facesse bene essere fuori da tutto e dedicare un attimo del suo stato a se stesso e basta. Era forse il momento di fare un nuovo viaggio, passato il fall festival di sicuro bisognava partire in una direzione oppure in un’altra. Bisognava partire e lasciarsi dietro tutto, si tutto, ma solo per un pò. Indie sapeva che dentro di se aveva memoria abbastanza per poter ospitare le cose belle e le cose brutte. Poi sul fatto di quali fossero le belle e su quante fossero le brutte non c’era molto da discutere era fin troppo evidente. Indie sognava un mondo con i colori di Novembre, ma ogni tanto aveva bisogno di una serie di puri bicorde suonati con il distorsore ed una batteria che facesse sentire il vento dietro le spalle. Mise le cuffie e lanciò una Aces High degli Iron Maiden dall’album Powerslave. schiavo della potenza dell’heavy metal degli iron, non necessariamente fan di tutto quello che avevano fatto, ma di sicuro era un powerslave. Riusciva nella stessa giornata a passare dai lush a david sylvian agli iron maiden. Ci mancava vivaldi e qualche autore russo per completare l’opera. Uscire fuori gli servì anche per appoggiarsi minimamente sul muretto di fronte al circolo. Non ci si sedeva da molti anni da quando praticamente era una pratica comune e da quando via loria non era a doppio senso. Che assurdità i ricordi e soprattutto quani ne aveva. Erano tutti nella sua mente ad aspettare di essere tirati fuori per ferirlo sempre un po’, ma del resto che senso avrebbe vivere altrimenti. Decise di rientrare, ma si accorse che aveva passeggiato e si era spostato di molto da lì. Il circolo non era più vicino e i suoi passi facevano poco rumore. Luci basse, respiro, luci basse e Indie cominciava a non sapere dove fosse. Libera lo recuperò immediatamente alle spalle e si sentì per un attimo meglio. “Dove sono?” “Con me, dove vuoi essere” “Ma lo sono definitivamente?” “Non ancora Indie, non ancora.” e sorrise come solo lei sapeva fare. Si destò da questa assurda sensazione grazie ancora e solo alla telefonata in arrivo: “Dove cazzo sei?” disse Benny “ah eccoti sei seduto di fronte al circolo e io qui dentro ad aspettare te.. insomma stasera la dobbiamo fare sta cosa oppure no? Se hai cambiato già idea dimmelo!!” ed Indie che non riusciva a capire come si fosse spostato così velocemente disse “no scusa Benny, sono qui diamoci da fare. Recupero la chitarra e facciamo il soundcheck. Che il Fall ricominci!!” Ed il fall ricominciò.

[^]

Cap.10 – Profili

E’ singolare ed interessante come guardare e sbirciare sulla librerie altrui porti inevitabilmente alla creazione di un profilo personale delle persone. Cominciando dalle foto che gli altri lasciano in giro per casa, passando per i quadri, i libri, i cd ed i dvd, si arriva a guardare poi il copriletto e su come sono disposte le cose sulla scrivania ed intorno al computer. Indie ne aveva stilato una sorta di tassonomia ed aveva sviluppato un paradigma per poter poi affrontare questo tipo di persone in base al profilo che aveva creato nella sua mente sociale.

Guardando sulla libreria di Allen per esempio si era reso conto di quanto gli anni 70 fine ed inizio anni 80 avessero condizionato la sua vita, il suo modo di fare, il suo modo di vestire. Il disco più nuovo non superava l’età di Trompe Le Monde dei Pixies e di conseguenza i manifesti dei concerti che ancora regnavano nella stanza non potevano che essere di Kim Deal, di Iggy Pop. La scrivania di Allen era fatta in modo che si potesse affrontare da un solo lato. I suoi libri di inglese e russo creavano una barriera per ogni essere umano tranne che per lui, un london’77 addicted capace di entrare in qualunque buco data la sua esile stazza. Comunista fino all’ossicino della cupola del labirinto dell’orecchio medio, adorava Indie, la sua musica e le sue idee rivoluzionarie, di conseguenza quella sera confermò la sua presenza all Fall festival con un fantastico sms. Ricevere un sms di Allen era come vedere la cometa di Halley, quindi possiamo affermare che trattavasi di un sms di Halley.

Guardare la libreria dei dvd di Jamba era come immergersi nella purple haze di fine anni ’70. Il mitico Jamba, mitico davvero, ogni 18 settembre commemorava la morte di Jimi Hendrix organizzando un festino nel suo covo a base di Drifting, Angel e The wind cries Mary. Indie non se ne perdeva uno anche perchè era l’occasione per incontrare vecchi fantasmi del passato che di continuo cambiavano pelle ed abitudini creando non poca confusione. Capelli rasati e zampa d’elefante non rendono molto l’idea di tu chi sia, ma rendono senza dubbio l’idea che tu sia passato da un tempo all’altro ed ora sei in una fase di transizione. Cronologicamente ti viene da pensare che tu abbia tagliato i capelli come ultima cosa. Jamba aveva confermato la sua presenza con un sms: “chi è dint è dint e chi è fore è fore” traduzione: chi è dentro, è dentro e chi è fuori e fuori, per indicare che chi non veniva passava nella black list e lui come sempre era nella white. Guardare la libreria e le foto in particolare di Spark era come calarsi in un mondo glam pop major di un glitter che faceva rabbrividire un esserino intimo come Indie. Foto di George Michael e di Prince si mischiavano a foto di Spark con attori, per volervi trattare bene, italiani visibilmente infastiditi (della serie scatta presto che questo qui mi fa schifo). Compilation cd di natale e di lounge music degli stivali di Indie ed una perfezione da serial killer nella disposizione delle cose sulla scrivania rendevano Spark spark! Confermava anche lui con un old-fashioned sms della serie: “Egregio signore siamo qui per confermarLe la nostra spero gradita presenza” e quando diceva nostra parlava ovviamente di sè. Lifo invece aveva una scrivania di tutto rispetto su cui regnava un poster della 4ad con Annie Clark dei St. Vincent. Indie adorava Annie Clark, adorava le sue mani ed il modo di suonare, adorava anche quei suoni assurdi ed in maniera sinestetica, alla sua maniera, visualizzava respiri e colori di una intensità imbarazzante. Lifo si chiamava Alfonso e lifo era il soprannome più azzeccato del ventunesimo secolo. Immaginatevi un bicchiere da 0.20, di quelli vecchi da cucina con la base esa oppure ottagonale. Prendete 3 palline da ping pong e numeratele. Inseritele in maniera ordinata nel bicchiere, quindi prima la 1 poi la 2 e poi la 3. Ovviamente per come sono grandi le palline e per come è capiente il piccolo bicchiere da 0,20 per poter tirare fuori la pallina numero 1 dovete estrarre prima la 3 e poi la 2.. chiaramente. Questa “tecnica” prende il nome di L.I.F.O. (last in first out) per indicare che l’ultima pallina ad entrare è la prima ad uscire. Ecco Lifo faceva sistematicamente tardi ad ogni occasione, ad ogni concerto che si rispetti e che sia degno di essere chiamato tale. Lifo arrivava in orari assurdi ed essendo quindi la sala di solito piena e lui l’ultimo ad arrivare, alla fine del concerto era per forza il primo ad uscire. Lifo essendo agorafobico se non c’era nessuno nello spazio aperto e vuoto del locale diventava Fifo non solo perchè applicava la tecnica del First in first out e cioè il primo ad entrare era il primo ad uscire, ma anche perchè Fifo era diminutivo di fifone. Lifo/Fifo confermò la sua presenza con uno stack di sms. Arturo aveva una scrivania strapiena di sottobicchieri, strapiena zeppa di bottiglie vuote di birra e ne conosceva fino all’ultima goccia le proprietà organolettiche, sconvolgenti e dissanguatorie. Arturo se ti beccava era capace di raccontarti la wikipedia della birra e di ogni altro alcoolico presente sulla terra senza mollarti per un secondo. Arturo spedì un alcoolico ed etereo sms che confermava la sua presenza al circolo quella sera. Variabile aveva una libreria stracolma di strumenti e strumentini provenienti da tutto il mondo. Adorabile ed incisivo riusciva a dire in sequenza ventimila parole senza trovare una soluzione al labirinto lessico in cui si cacciava. Senza apporre punteggiatura aveva aderito alla serata con un dislessico sms. Luna aveva la scrivania piena di rane ed il pavimento pieno di farf. Il Farf era un’entità a se. Un cane, anzi no ogni cane. Una entità farfosa ed adorabile, talentuosa in ogni cosa, ed incazzosa in tutte le cose aveva confermato la sua presenza con un sms punk dal suo i-Farf. Solo di un autentico bugiardo può essere la scrivania di chi mette le foto di ghandi e del presidente del consiglio a breve distanza. Anche perchè si sa molto bene che la distanza fisica indica anche la distanza di opinione. Amedeo non aveva accettato l’invito di Indie, forse gli avrebbe fatto male sentirsi dire qualche verità. E si sa chi è bugiardo può morire di verità. Il suo sms era pieno di scusami, ma sai cosa… non posso venire perchè devo pulire lo skateboard al mio gatto. La scrivania di Alberto ed i muri della sua stanza erano tappezzati da poster degni dell’ultimo garage dell’ultimo meccanico della terra. Donne con seni esagerati, in bikini ed a volte no, nudità debordanti dalla minuscola lingerie devastavano la bellezza della “donna” in quanto tale. Ed a quanto pare devastavano anche il cervello di Alberto che era convinto che la vita fosse un lunghissimo film porno in cui il protagonista principale, la porno star, fosse lui. sempre e solo lui a dare un motivo alla vita. Sesso e niente più, del resto tutto quello che aveva da far vedere o rappresentare in quanto uomo era tutto lì. Alberto inviò il suo sporco sms di approvazione degno di un film trash anni 70 con Renzo Montagnani che palpa una cameriera di nascosto in cucina.

Dolce rifiuto quello di LittleAnn, la sua scrivania non era possibile vederla, perchè era solo nella fantasia di Indie. LittleAnn non esisteva come non esisteva la sua scrivania, ma il suo sms fu dolce “sai non posso venire perchè non esisto, ma ti ascolterò lo stesso, tanto è uguale”. Molte erano le persone non persone che venivano quella sera. Tutti avevano il loro profilo con se pronto a metterlo a disposizione di Indie e della sua irripetibile serata finale. Finale, che bella parola, significa sempre qualcosa. Finisce qualcosa per dare il la all’inizio di un’altra cosa. Oppure finisce qualcosa definitivamente. Oppure finisce qualcosa per farne finire un’altra. Ad ogni modo la fine era vicina, di cosa non lo sapeva nemmeno Indie, ma di certo sarebbe finita.

Tutto quel sentire vicine le persone per la sua ultima serata gli faceva venire in mente la sua infanzia.

[^]

Cap.11 – La compagnia dei piccoli Indie

Indie era stato sempre un bravo bambino, ubbidiente, silenzioso e rispettoso dei genitori. Gli piaceva studiare, e non dare mai fastidi. Certo aveva rapporti sociali con altri bambini e spesso litigava, ma mai perché qualcuno gli aveva detto di giocare in porta durante la sfidetta inevitabile a calcio nel cortile del palazzo. Il cortile sotto casa dei genitori era l’agorà dove tutti i figli dei condomini si incontravano. Evidentemente negli anni 70 spread era solo una cattiva parola per cui la gente figliava. In quel palazzo di una ridente Salerno c’erano molti bambini e nel cortile c’erano tre alberi bellissimi. Due di questi erano più vicini tra di loro e quindi evidentemente la pensavano allo stesso modo. L’altro albero, un pò più solitario e taciturno era un po’ defilato. Questo era decisamente più vecchio più imponente e forse gli altri due ne avevano un po’ paura. I due alberi vicini rappresentavano una porta perfetta per giocatori di calcio in erba, mentre l’altro grande, al centro di un angolo del cortile era una perfetta rotatoria per ciclisti. Una recinzione delimitava il perimetro di quello che piano piano sarebbe diventato un parcheggio per auto. Prima o poi tutti quei bambini sarebbero diventati maggiorenni e di conseguenza le auto si saerbbero moltiplicate. Indie ricordava che tra le poche auto che c’erano all’interno del cortile ne spiccava una per stile e poesia. L’auto di don Biagio era enorme e per un bambino era come una nave. Una pallas di dimensioni astronomiche guadagnava il primo posto nel cortile e proprio per questo risultava un impedimento abbastanza evidente. A volte i bambini si infastidivano di quella pachidermica presenza nel loro territorio, ma restavano comunque molto colpiti ed estasiati da tanto grigio metallizzato. Al piano terra, l’appartamento che faceva da angolo sull’ala est del palazzo c’era uno stendipanni esterno, il classico filo di metallo mantenuto da due sbarre di ferro, che era un perfetto canestro per giocatori di basket. mentre il muro sottostante era un perfetto luogo di allenamento per tennisti. E’ chiaro che don Armando, abitante di quella casa così “esternamente sportiva” era distrutto dalla presenza di tutti quegli atleti e di conseguenza amava praticare gavettoni abbastanza capienti che vaceva volare dalla finestra verso i piccoli partecipanti alle gare. Dall’altro lato, ala sud-est i gavettoni a volte erano più pesanti. La signora del quarto piano aveva il vantaggio dell’altezza e quindi dell’accelerazione di gravità. I suoi gavettoni erano pesantissimi ed oltre che caldi facevano anche abbastanza male. I portoni del palazzo, come da tradizione seventies erano di vetro con barre di alluminio verticali e spesso erano teatro di demolizioni dovute a lancio di oggetti di ogni sorta e genere. Biglie, palloni e palline da tennis erano le armi preferite da quella gang improvvisata. I genitori erano sempre lì a discutere dei danni da pagare di quello o dell’altro portone, di quella o dell’altra macchina. Gli alberi del cortile del resto potevano solo essere spettatori di quel teatro degli orrori e poco potevano verso i vandaletti. L’unica cosa che riuscivano a fare era l’ombra e per tutti era la loro unica funzione utilissima per poter disegnare e partecipare in maniera diciamo asciutta ad una settimana di gessetto e pietre. Indie ricordava ancora come si giocava a “settimana” e pur se era un gioco da femminuccie a lui questa distinzione non piaceva e quindi ne faceva parte, punto. Gli alberi facevano ombra per tutti, ma non per Indie. Gli alberi per Indie rappresentavano la forma perfetta della natura, la bellezza interminabile e complessa delle forme che gli alberi riuscivano a regalare al mondo era figlia di una pratica di una semplicità estrema. Acqua, luce e aria e, niente altro. L’albero si nutriva di nulla e mostrava con eccessiva spudoratezza una bellezza infinita che spezzava il cuore di Indie. Indie amava gli alberi perchè amava la natura e quando abbracciava la sua chitarra piangeva per l’albero che era stato tagliato perché ne sentiva ancora sotto le mani la sua essenza ed il suo carattere. Il giorno più brutto fu quando l’assemblea di condominio decise di tagliare gli alberi in quanto intralcio al parcheggio delle macchine. Pezzi di storia venivano falciati per dare spazio a lamiere, smog, e plastica. Pezzi d’amore altissimi e maestosi venivano falciati e le loro radici coperte di asfalto per poter permettere all’uomo di parcheggiare. “Fanculo” pensò Indie, “adesso nessuno più riuscirà a guardarci mentre giochiamo. Saremo sommersi da auto ed il pallone non potrà circolare tranquillo in questa zona del mondo. I calciatori, i cestisti ed i tennisti dovranno adeguarsi e cambiare giochi perchè non c’è più spazio per questi. Tutti questi sportivi saranno costretti a trovare delle nuove droghe”. E fu così perchè l’arrivo delle macchine coincise con quello del Commodore64, del 128 per i più fortunati e dell’Amiga per i fortunatissimi. E’ ovvio che queste droghe non bastavano perchè nessuna di esse era fatta per l’aria aperta. Indie cominciò a fumare. Rubò una Nazionale dal pacchetto del papà e scappò dietro piazza “vittime del terrorismo”. Lì non poteva vederlo nessuno. Accese la sigaretta con un fiammifero rubato in cucina e subito gli girò la testa. Ma si sentì grande, immediatamente grande. Di colpo si sentì più alto, ma era il capogiro. Avvertì che aveva fatto per la prima volta una cosa che, se scoperta, gli avrebbe provocato una punizione esemplare. Capì che la sua trasgressione sarebbe diventato l’errore più grande della sua vita. Gli alberi vivevano di acqua, aria e terra, lui aveva scelto l’elemento che li avrebbe ammazzati: il fuoco. Come poteva non accorgersi che l’unico elemento che gli alberi non volevano era il fuoco? E lui proprio il fuoco aveva scelto. Per sentirsi alternativo, ma sapeva bene che non ne aveva bisogno. Per fare colpo sulle ragazzine, ma molte di queste avrebbero tossito al solo pensiero di avvicinarsi a quell’alito adolescente e fastidioso già di suo. Ma ormai l’aveva fatto. Aveva intrapreso una strada da cui uscì solo dopo 20 anni.

La compagnia ormai non più allegra di piccoli indie aveva fatto una bella riuscita davvero. L’unico che si era salvato dalla delinquenza era Indie. L’unico che non aveva avuto almeno per ora problemi con la giustizia era lui. Di alcuni non si sapeva più nulla, di altri avevano buttato via la chiave. Uno in particolare incontrava Indie spesso nel posto che rappresentava la salvezza di ogni musicista che si rispetti: Il Bar Marconi.

Il bar sul lungomare marconi era un posto di ritrovo di tutti i musicisti di ritorno da una serata. Il bar era aperto twentyfour seven, per gli amici, tutti i giorni a tutte le ore. Non c’era musicista salernitano che non passava di lì alla fine di ogni serata a prendere cappuccino e cornetto (chisssà perché lo chiamano briosce al nord, ha la forma del corno). Il cappuccino del marconi era cremoso, buono e soprattutto ti metteva a letto. Le cose buone di solito ti mettono a letto.

Giovanni incontrava Indie al bar marconi spesso e come ogni santa volta lo salutava come un suddito al suo re, come uno schiavo ad un politico e Indie ricambiava con lo stesso affetto. Indie lo aveva aiutato con l’esame scritto della terza media ed egli lo ringraziava sistematicamente come se gli avesse salvato la vita. In realtà forse era così. Col senno di poi le cose cambiano ovviamente faccia. Giovanni era stato in comunità per diversi problemi con la droga, poi era riuscito a venirne fuori e questo gli faceva dare definitivamente la giusta importanza a tutte le cose della vita. Giovanni aveva un ottimo ricordo di Indie e forse questa era una piccola cosa che quasi sicuramente lo avrebbe aiutato a restare attaccato alla realtà nei momenti più difficili del suo recupero. Indie ricordava che Gianni ai bei tempi delle scuole medie picchiava duro, più degli altri, e che era abile come una scimmia e che tutti un pò lo temevano. E come tutti i bulli della scuola Gianni si teneva stretto quello che andava bene in tutte le materie: Indie. Il loro saluto era sempre accompagnato da un caffè e dalla domanda tipica: “allora con la musica come va?”

“Hey, Indie con la musica come va?” questa domanda Indie se la poneva da solo centinaia di volte. “Come ti senti oggi? In which mood are you in today? Come butta fratello? Ti senti un po’ meglio? Risalirai sul palco? Riuscirai a tenere in braccio una chitarra?” Queste mille domande Indie se le faceva in continuazione e forse le sentiva nella mente delle persone che gli si avvicinavano. Tutti desideravano il suo ritorno, tutti volevano che Indie “risalisse” e non solo sul palco. Anche Indie voleva risalire a tutti i costi, anche le sue mani volevano riprendere lo splendore dei tempi passati. “Ma quanto tempo è passato Indie? Dall’ultima volta?” Questa domanda non l’aveva ancora posta a se stesso e quando lo fece si rese stranamente conto di non avere una risposta. Indie, quello che andava bene in tutte le materie non ricordava da quanto tempo era in quello stato “soundless”. Non riusciva a ricordarsi da quanto tempo stesse così, senza suono. Bisognava recuperare. Lo fece con la certezza di chi ha bisogno di scappare in bagno. La sua urgenza si manifestò come la assoluta necessità di partire per un luogo che amava. Indie uscì dal circolo nuovamente per scappare. Luci basse, respiro, urgenza, cervello, mano, corda, aria, respiro, ed ancora respiro, urgenza, cervello, mano, corda, aria, respiro. Il suo stato in apnea. Vide i colli senesi nuovamente, la toscana, il suo luogo di fuga segreto. Il vino, le colline, i casali, il silenzio. Le strade deserte, lunari della campagna maremmana. Indie amava la toscana. Indie amava la terra del silenzio.

[^]

Cap.12 – Le terre del silenzio

Sono le terre in cui Indie si sentiva a casa. Il silenzio per lui era la forma migliore di musica ed anche la più difficile da raggiungere. Essendo parte della natura ed in competa unione con essa, anche le sue composizioni decisamente risentivano di questa totalità inesorabile. Il silenzio si manifestava raramente, ma dentro la sua mente più spesso. Un esercizio costante negli anni gli aveva permesso di annullare ogni pensiero e di tendere al silenzio. “Approching silence” non a caso era tra i suoi album preferiti di Sylvian/Fripp. La tecnica era apparentemente semplice, ma ci voleva molto allenamento per raggiungere l’obiettivo. Si stendeva, chiudeva gli occhi e cercava di rilassare ogni singolo muscolo. Poi immaginava un foglio di carta vuoto su di un tavolo sgombro. Il nulla intorno. Pian piano il foglio si avvicinava al suo volto fino a coprire l’intero campo visivo che diventava così bianco. Bianca come il foglio la sua mente a quel punto cancellava ogni singolo pensiero e giungeva al silenzio. Aveva provato questa cosa per anni. Era riuscito ad applicarla al cento per cento soltanto da poco, quando il silenzio divenne una delle sue funzioni a comando. Era ormai talmente allenato che spegnersi e perdersi nel silenzio era come il risultato della pressione di un pulsante su quell’aggeggio strano che era la sua mente. Raggiungeva il silenzio e cominciava ad immaginare che la sua testa fosse piena di un magma di colore verde che pian piano cominciava a scorrere nel resto del corpo come se qualcuno avesse aperto un rubinetto sotto al collo. In maniera del tutto ordinata il flusso verde scorreva nelle sue braccia e poi nelle sue gambe e poi fino a riempigli l’intero corpo. Quello stato raggiunto era lo stato del silenzio e della completa immersione nella natura. Solo così poi poteva alzarsi piano e cominciare magari a comporre qualcosa. Se non faceva così le sue composizioni erano troppo lontane dalla realtà dove per realtà non intendiamo la musica che vende, ma l’essenza reale del mondo, le foglie, le radici, gli alberi, la terra, l’aria, il fuoco, il mattino, la notte. Per poter giungere allo stato del silenzio Indie aveva bisogno di silenzio intorno a se. Aveva immaginato di poter raggiungere le sue terre del silenzio da qualunque posto, del resto se era parte della natura poteva raggiungere qualunque posto, bastava un pò di vento oppure una corrente marina oppure il letto di un fiume per arrivarci. Indie tra l’altro conosceva anche delle scorciatoie per giungere in quei posti della sua immaginazione. Conosceva ogni singolo albero del suo percorso e conosceva molto bene anche gli animali che incontrava. Una notte però ebbe tanta paura. Raggiunse lo stato del silenzio e si incamminò verso un muro che lo aveva incuriosito particolarmente perchè aveva due porte di accesso. Una la scartò a priori in quanto gli sembrava di capire dove lo portasse in maniera abbastanza certa. L’altra gli sembrava più misteriosa e non appena l’aprì intuì che se fosse andato oltre sarebbe diventato definitivamente e completamente pazzo. allora la chiuse di colpo e scappò risvegliandosi con un sussulto e questo gli provocò non pochi problemi di ansia. Indie aveva visto la pazzia quella notte e se ne era scappato. Chissà rimanere e varcare la soglia dove lo avrebbe portato. Chissà se essere pazzi nelle terre del silenzio porterebbe a qualcosa di buono e di piacevole. Se lo chiedeva spesso. Del resto alla pazzia c’era sempre stato molto vicino. Ma le terre del silenzio erano nulla senza le terre dell’amore.

[^]

Cap.13 – Le terre dell’amore

I territori in cui Indie non si sentiva a casa. Le strade buie ed avverse, le rotte sbagliate e le vie strette. Erano i territori in cui Indie perdeva il senso dell’orientamento. Quando si esce per fare del trekking di solito ci si attrezza per bene, si valutano le condizioni atmosferiche, si dorme tanto e ci si allena nel tempo per arrivare preparati alle scalate. Si comprano i vestiti giusti, si comprano le attrezzature e soprattutto quando si parte per un percorso lungo si cerca sempre di anticipare gli orari in modo da non tornare alla fine con il buio. Indie iniziava i suoi percorsi, i suoi loving paths, con una forza eccezionale, faceva le salite ed affrontava le intemperie con una prestanza non comune. Era capace di arrivare anche senza fiato alla vetta. Saltava sulle pietre dei torrenti, si fermava a contemplare le bellezze della natura ed a coccolarle fino allo svenimento. Contemplava l’amore con cui ogni essere vivente si donava anche per pochi secondi ad un altro e ne rimaneva sempre tanto estasiato, in silenzio appunto. Le cascate lo affascinavano, gli alberi lo avvolgevano e lo proteggevano con le loro forti radici, ed il vento, il vento suonava melodie meravigliose tra i tronchi e le foglie facevano da contrappunto. Indie si accorgeva solo in vetta però, nel rifugio a 2000 metri che era buio e non poteva tornare. Si accorgeva solo quando l’aria era rarefatta, consumata, che non aveva più ossigeno per continuare. Quindi precipitava inesorabilmente e senza appigli nel baratro della noia mortale in cui tutta la vegetazione, che cambiava ad ogni centinaia di metri di altitudine durante la salita, diventava tutta uguale nella discesa. I colori che avevano caratterizzato la multicromia dell’andata accadevano come monocromatici al ritorno precipitoso. La discesa, il fall out, la caduta, la monocromia, trasformavano le terre dell’amore nelle terre del vuoto. Indie soffriva in salita quanto in discesa. Indie per salire era capace di donare tutto se stesso, nel precipitare non riusciva a recuperare nulla di quello che aveva donato ed arrivava in fondo senza più nulla, senza più la forza per risalire di nuovo da nessuna parte. Le terre dell’amore di Indie erano piene di sabbie mobili e di strapiombi improvvisi. Il vento soffiava solo durante la salita, e moriva con lui nella discesa. Indie amava quei rapporti che vivono nei secoli, amava quegli alberi che intrecciavano le proprie radici fino a vivere della stessa linfa e dello stesso sangue. Indie non amava i legami tradizionali, ma quelli definitivi. Se conosceva una persona ed a questa consegnava il suo cuore il suo amore era per sempre comunque sarebbe andata la loro storia Indie in una parte del giorno senza dubbio avrebbe pensato a quella persona, ogni giorno, per tutta la vita. Lo spazio fisico del suo cuore era immenso e di conseguenza la potenza del suo dolore a volte era senza nome. L’amore, la passione, il dolore, la musica, i rapporti indissolubili, l’amicizia vera, le affinità erano tutti figli delle terre dell’amore. Le stesse non erano nulla senza le terre del silenzio. Le terre del silenzio e dell’amore di Indie erano la stessa unica indissolubile entità ultraterrena. Erano terrene da sole, ma ultraterrene insieme. “Together we stand, divided we fall, we fall, we fall” risuonava nella mente di Indie che quella sera doveva rientrare nel circolo per il suo epico finale discorso del fall festival.

[^]

Cap.14 – Soundcheck

“Ma insomma, devo venire per forza a riprenderti ogni volta? qua dobbiamo lavorare e tu te ne vai, qua c’è finire tutto e tu te ne vai in giro col cervello? Indie ma che ti succede?” tuonò Benny. “Devi fare i suoni, devi provare la chitarra, devi provare il discorso, poi c’è il sound check dei Pocket, eh.. a Libera non la vuoi vedere? Le vogliamo dare una mano a fare i suoni? e gli strumenti sul palco chi li porta solo io? La chitarra approposito dove sta? la tua intendo Indie? dove sta?” Quella domanda creò un’altra voragine decisiva nella mente di Indie. Quale chitarra avrebbe usato quella sera per il ritorno? Forse “Mercoledì”? Si “Mercoledì” era il nome della sua chitarra preferita. Una artigianale senza marca nera acustica elettrificata che si era fatto fare da un liutaio di Bojano negli abruzzi. Era affezionato a Mercoledì come ad un cagnolino. Mercoledì portava i segni delle ditate e del sudore di Indie nelle serate difficili. Non cambiava le corde da troppo tempo ormai, non cambiava le meccaniche dal giorno in cui l’aveva comprata e l’aveva pulita l’ultima volta non ricordava assolutamente quando. Mercoledì gli calzava bene nelle mani ed il manico era un’autostrada a sei corsie. Ci aveva scritto di tutto con quella scontrosa di Mercoledì. Si era scontrosa perchè voleva sempre fare quello che diceva lei, ma Indie era abbastanza determinato e deciso sulle sue corde e riusciva a dominarla con semplicità. Adorava il suono di Mercoledì e Mercoledì adorava le mani di Indie su di lei. Un amore corrisposto, eterno, uno scambio di sensazioni dal tatto, all’olfatto all’udito. Indie la toccava con dolcezza e Mercoledì gli restituiva un suono fantastico insieme all’odore della sua natura creando così un piacevole amplesso di sensi. Ma mercoledì non era lì con lui, ed Indie doveva andare alla sua amata indiefarm a recuperarla. Benny era furioso a dir poco. Montò sul motorino e gli intimò:”Sali, scumbinato!” Ed Indie salì sul motorino di Benny. Insieme si lanciarono per la trafficata via Mauri e la sensazione del vento che gli entrava nelle orecchie lo colpì al punto di chiudere gli occhi e di godersi quell’abbraccio con la velocità. Aveva Fly nella sua mente, in quel momento Fly occupava ogni parte del suo corpo. Ad occhi chiusi avvertiva appena il movimento delle ruote ed il battito del suo cuore. Ad occhi chiusi si stava facendo trasportare dal suo amico per ricongiungersi con la sua amata MErcoledì con Fly nella mente. Un amplesso di pensieri e desideri. Del resto che cosa è la vita se non questo insieme di piccoli momenti di estasi completa. Indie avvertiva i sorpassi di Benny e si compiaceva di viaggiare veloce verso la sua amata chitarra. Quella sera l’avrebbe usata nuovamente per congiungersi con essa e con il pubblico che lo aspettava con ansia. Quella sera avrebbe fatto l’amore sul palco ed avrebbe poi commentato il tutto condividendo musica e filosofia con tutti i presenti e con tutti i profili che aveva nella sua mente. Li avrebbe guardati negli occhi tutti quella sera, e gli avrebbe detto tutto quello che pensava. Ma per il momento aveva gli occhi chiusi ed un semoforo fermò il vento dentro il suo corpo. Avvertì le voci delle persone che dovevano attraversare. Parlavano del Natale, delle luci e di quanto sia bella Salerno in questo periodo. Parlavano di regali e che quest’anno non era il caso di spendere molto in quanto la crisi si fa sentire. Sempre ad occhi chiusi scattò il verde ed il vento riprese la corsa nel suo corpo. Avvertì l’avvicinamento alla foce del fiume ed il canto dei gabbiani ancora in giro. Avvertì la brezza più fredda della zona della stazione ed avvertì nuovamente il semaforo nei pressi del tabaccaio più famoso della città. Lo immaginò dietro al suo bancone. Un uomo distinto molto alto, longilineo e con delle mani che sembravano tentacoli. Aveva la capacità di separare il resto che doveva ai clienti posizionando precisamente una moneta diversa sotto ogni dito. Con la sola apertura della mano riusciva a consegnare gli spiccioli al cliente senza che nemmeno se ne accorgesse. Si pensava addirittura che fosse capace di recuperare i pacchetti di sigarette dal muro alle sue spalle senza neanche guardare e muovendo soltanto la mano destr, o meglio uno dei tentacoli di destra. Benny accelerò e ripartì e Indie continuava a godersi il buio dei suoi occhi chiusi avvertendo le luci d’artista accese sopra di loro. Adorava non guardare la città, Indie adorava sentirla, avvertirla come se fosse soltanto nei suoi pensieri. Guardarla gli sembrava a volte semplicemente banale. Giunsero al centro storico e Benny si infilò nei vicoli che portavano alla IndieFarm. Aprì gli occhi e gli sembrò di essersi teletrasportato in quel mondo che era il suo studio. Aprì velocemente la porta discese le scale e recuperò Mercoledì nella sua custodia. Il solo fatto di avvertirla addosso di nuovo lo faceva rinascere. Uscì di corsa e saltò sul motorino nuovamente con lachitarra in groppa sulla schiena. Richiuse gli occhi per il viaggio di ritorno verso il circolo e quindi verso la città. Via Canali, via porta di mare ed una piccola infrazione ed in un attimo si trovarono sul lungomare. Occhi chiusi, gli sembrava di ascoltare le voci rilassate delle persone a passeggio. Le tre corsie che il lungomare formava naturalmente a partire dalla spiaggetta di Santa Teresa fino a Piazza della concordia avevano tre significati ben distinti. Chi camminava sul mare e quindi sulla corsia più esterna era di sicuro romantico e quindi di certo amava guardare il mare e la costa. Se camminava verso nord di sicuro poteva apprezzare la costiera amalfitana in parallasse con la zona portuale. quelli che invece si incamminavano verso sud avevano la visuale della costa salernitana e potevano apprezzare come la città si fosse espansa verso le spiagge della piana del sele. Nella corsia centrale del lungomare c’era chi voleva starsene un pò per fatti propri o chi semplicemente aveva qualcosa da nascondere o da fare di nascosto. Le coppie anziano-donna dell’est e le situazioni promiscue più disparate si consumavano di effusioni proprio in quella corsia. Era quella anche la corsia delle fontanelle che ai tempi del jolly hotel portava ad un giardino con dei tavolini abitati da vecchi signori che giocavano a tressette. La corsia centrale puzzava. La corsia più esterna e quindi quella più vicina alla strada era come la strada stessa la corsia di chi il lungomare lo vuole affrontare di fretta senza soffermarsi e goderne dei vantaggi paesaggistici. Ma di certo chi viaggiava in questa corsia all’altezza del mitico bar nettuno doveva fermarsi oppure ci si era fermato almeno una volta. Il gelato a nocciotella del bar nettuno era come dire il dolce cittadino. la prelibatezza riconosciuta universalmente. l’opera d’arte calorica per eccellenza, il sesso del cioccolato e della nocciola in un contesto di cremosità imbarazzante in un accorato abbraccio con una brioche affusolata sormontata da una striscia di crema striata pasticcera. Una bontà senza eguali. Una volta c’erano i binari sulla terza corsia. Si i binari in mezzo alla città e se avevi la fortuna di passarci molto presto al mattino potevi guardare ed osservare il lento passaggio poetico del trenino merci che dal porto arrivava al cementificio. Ormai e fortunatamente questo spettacolo indegno era stato tolto e quindi al posto del cementificio era stato creato un non meno imbrarazzante hotel dalle sembianze di una nave alla love boat, terribile. Sfrecciarono in mezzo a piazza della concordia sperando di non trovare il quasi inevitabile posto di blocco delle forze dell’ordine e giunsero all’altezza della Carnale in un battibaleno. Fortezza che dava il nome al rione di Torrione e che segnava l’avamposto della zona orientale della città, il “checkpoint charlie de noiartri” così lo chiamava Indie. Girarono per l’interno e Benny attraversò tutte le stradine che legano Torrione a Pastena con un labirinto tortuoso, ma pur sempre interessante. Indie quasi avvertiva le voci provenire dai piani rialzati delle case popolari e ne avvertiva la semplicità, la saggezza, il sacrificio e la normalità tanto invidiata di chi non ha avuto la possibilità, la forza e la capacità forse di farsi una vita migliore. Giunsero nuovamente al circolo in pochissimo tempo. Benny aveva corso come un ossesso. Indie all’improvviso lo guardò spaventato: “cazzo! cazzo! cazzo! ho dimenticato una cosa allo studio!” e Benny “NOOO, io ti ammazzo!” e Indie “cazzo! cazzo! la cordiera nuova!!!!” e Benny:”noo non ci posso credere” e Indie alla fine crollò e con lui il suo scherzo:”coglione ti stavo prendendo in giro, ce l’ho nella custodia” e cominciò a ridere come un pazzo scatenato. “Te l’ho fatta, fesso!” Entrarono nel circolo ed i Pocket erano tutti lì ad attendere che si cominciasse a lavorare al soundcheck. Una delle regole del soundcheck, forse la più importante subito dopo l’essere zitti e professionali, è quella dell’ordine con cui si effettuano le prove dei suoni. Chi suona per ultimo fa il soundcheck per primo. Chi suona per primo fa il soundcheck per ultimo, questo per garantire che quando si sale sul palco i suoni per il primo spettacolo sono già settati. In realtà con la introduzione dei mixer moderni questa cosa è stata come dire superata, ma si trattava del circolo e quindi non di mixer moderni. Di conseguenza i Pocket suonando per primi dovevano attendere il soundcheck di Indie che ben decise di voler fare a porte chiuse e da solo con Benny. Non una persona ad assistere al suo souncheck oltre lui, non una minima persona, lui, Mercoledì e Benny. Salì sul palco, tirò fuori il jack dalla custodia, la cordiera nuova, quella dello scherzo, e cominciò a sfilare le corde vecchie da mercoledì. A quel punto Benny andò su tutte le furie..”ti sembra il momento di cambiare le corde? hai idea di quanto tempo ci vuole?” ed Indie “stai facendo un’opera teatrale! stai esagerando, e non parteciperò a questa tua ansia compulsiva. Devo suonare, lo voglio fare nel migliore dei modi” e soprattutto ogni singolo gesto prima dell’esibizione doveva essere perfetto ed imperturbabile. I gesti contano tantissimo nella musica. Rappresentano il rispetto verso lo strumento e l’ascoltatore. La gestualità è troppo importante. Nel momento in cui si suona una corda si impiega una quantità del nostro corpo ben precisa in quell’istante e quindi si genera una timbrica ed una espressione proporzionale al gesto. Ed ogni gesto è diverso, distinto da un altro e rende ogni esecuzione unica ed irripetibile. Ogni volta che si suona una nota sarà sempre e per sempre diversa da ogni altra volta. Solo le macchine sono capaci di riprodurre un suono allo stesso modo per più volte di seguito. A quel punto la cosa che cambia è l’ascolto. L’ascoltatore non avverte mai allo stesso modo le cose così come nessun ascoltatore le avverte allo stesso modo di un altro ascoltatore. Questo fa del soundcheck una cosa troppo importante prima di suonare. Indie intanto infilava ogni singola corda come un sarto in procinto di confezionare il vestito di una principessa prima del suo matrimonio. Precisione ed a volte parossismo. infilò prima il mi basso in quanto secondo una sua teoria per nulla verificata, nè testata, il manico si tirava di più e rendeva più agevole l’inserimento delle altre cinque corde. Una dopo l’altra le corde andavano a formare il vestito di Mercoledì, la chitarra preferita di Indie. Il suono con le corde nuove è particolare e dura davvero poco. In realtà l’accordatura con le corde nuove è decisamente difficile da tenere in quanto essendo tirate per la prima volta dalle meccaniche della chitarra tendono a ritornare al loro stato di quiete e quindi si scordano. Ma poi piano piano come dei bambini che devono essere convinti per andare a scuola al mattino, le corde prendono coraggio e iniziano finalmente a fare il loro mestiere di corde. L’attaccatura delle corde alle meccaniche prevedeva un altro gesto importante per far si che alla fine la parte finale delle corde non fosse troppo lunga e non andasse a formare una sorta di capigliatura folta sulla paletta di Mercoledì. Meticolosamente Indie tagliava questi capelli che si formavano alla fine e la bimba era pronta per affrontare un’altra avventura. Infilò il jack che faceva sempre un po’ rumore, ma non si capiva perché non volesse portarlo ad aggiustare, e cominciò ad accordare. La capacità di accordare la chitarra di Indie era soprannaturale. Non aveva l’orecchio assoluto come si poteva pensare, ma riusciva a mettere le corde in relazione senza alcun riferimento ed anche senza usare la tecnica conosciuta di suonare per tutte le corde, tranne per il sol, il quinto tasto e verificare se coincide con la corda più acuta sotto. Indie ne sentiva una e riusciva ad accordare le altre senza riferimenti. Era una sorta di orecchio relativo universale. Finia la prima di una serie di antipatiche accordature, per gli assestamenti delle corde, iniziò il soundcheck. “Suonami prima una accordo”. Scelta difficile per Indie suonare il primo accordo per stabilire di che umore sarà il suo suonare. Decise per il suo amatissimo Mi minore settima nona che possiede una buona dose di corde suonate a vuoto. Lo arpeggiò e nella sala il “friggere” delle corde nuove di zecca risuonò meravigliosamente. Era un buon giorno per suonare, il mi minore settima nona glielo aveva detto così. E mentre le onde sbattevano nei muri del circolo formando degli immaginari intrecci di armonici che si incontrano volteggianti nell’aria, l’altro fascio di suoni stava per partire da Mercoledì pronta ormai a combattere quella battaglia di relazioni sonore tra note, accordi, armonici, timbrica ed espressione. Le note partivano ed incontravano resistenza nell’aria, ma la vincevano e sbattevano contro i muri poi a sponda, tornavano verso altre direzioni ed incontravano altre note di colore e forma diversi. Il tutto in un turbinio di relazioni tra molecole dell’aria e quando Indie si fermava per avvertire il reverbero di tutto quel viaggiare delle onde queste cominciavano ad affievolirsi ed a scomparire fino ad integrarsi nelle terre del silenzio. Mai più sarebbero tornate quelle note, mai più si sarebbero riformate allo stesso modo, mai più. Quelle note erano state prodotte lanciate nel mondo e non appartenevano più ad Indie, non appartenevano più alle corde di Mercoledì, non appartenevano più a Mercoledì, ma appartenevano al mondo. Avevano volteggiato per la prima ed ultima volta nell’aria del circolo e si erano trasformate per sempre in una improvvisazione irripetibile ormai parte della natura e dell’universo. Indie era attaccato alla vita probabilmente solo per questo. Il soundcheck arrivava fuori dalla sala come se fosse all’interno di un tubo. Indie non voleva che nessuno vedesse i suoi fili sonori che collegavano la sua vita alla sala, voleva solo poterli condividere con loro nell’atto del concerto e del discorso che avrebbe fatto. “A proposito di discorso, ma se lo ricorderà, lo proverà o farà tutto all’impronta come immagino?” immaginò Benny guardandolo suonare. Benny era l’unico che poteva sentirlo suonare in soundcheck ed era l’unico che poteva in qualche modo dirgli cosa fare, ma Indie seguiva difficilmente suggerimenti e/o consigli se non dalla stessa solitudine della sua indipendenza. Intonò Unity Village di Pat Metheny perchè la sentiva sua, non perché volesse essere lui. Del Resto Pat Metheny restava sempre una potenza della natura ed uno dei compositori viventi più importanti della storia della musica. Metheny gli faceva un effetto straordinario. Lo faceva sentire sotto le coperte. Intanto fuori dalla sala qualcuno riconobbe il brano e cercò di entrare. Indie era geloso solo della sua musica per cui non disse niente e mentre era nella parte in cui c’è il pedale su Re alzò gli occhi da Mercoledì e rimase fulminato dalla presenza di due occhi da cerbiatta che lo ammiravano da lontano. Rimase a fissare quegli occhi mentre il brano passava a Si bemolle e staccò lo sguardo solo quando arrivò il momento della ripresa del tema. Dentro di sè era stato colpito, ma pensò subito alle sue terre dell’amore e cominciò da subito a rinunciare a qualunque forma di approfondimento della questione. Cominciò a suonare più forte, sempre più dinamicamente forte, fortissimo fino a mettere a dura prova le corde che aveva appena montato. Si fermò di colpo e di nuovo il suo cervello andò in stallo ed avvertì subito le mani affusolate di Libera che lo recuperavano dal basso. Libera era lì e sapeva sempre dove trovarlo. Nella mente di Indie era diventato sempre più frequente questo passaggio dalla realtà al suo acquario personale. Entrava in questa bolla d’acqua e la sua mente avvertiva ma non capiva. Erano le cose che lo tenevano in vita a farlo reagire in quel modo assurdo. La vita lo spingeva verso un’altro stato. Di colpò si destò non del tutto cosciente e Libera non lo guardò fisso negli occhi e tenendogli il viso tra le mani gli baciò la punta nel naso nuovamente. “Chi è quel cerbiatto che tanto ti guarda lì in fondo?” “Chi sarà mai” rispose lui “una che mi vuol riportare in vita, oppure una che vorrà portarmi nelle terre che tu già sai” disse sorridendo. “Quelle terre sono pericolose Indie e sai bene che quelle, tutte quelle, portano inesorabilmente a me”. Indie non sapeva se vivere questa cosa come una minaccia o come una liberazione, ma di certo la viveva intensamente. Indie era turbato questa volta, il suo discorso finale si avvicinava e così le sue ansie aumentavano inesorabilmente. Corpo, mente, desideri, voglie, musica, sguardi, abbracci, cominciava a confondere un pò tutto. Allora si liberò e decise che era il momento di affrontare quest’altra questione. Le terre dell’amore andavano esplorate, anche se portavano verso Libera, ma andavano esplorate, qui, ed ora. Si destò completamente e Libera era stranamente fuggita via dal suo viso. Gli occhi di cerbiatta erano ancora lì a guardare, o meglio a fissare i suoi occhi profondi. “Benny, pausa! riprendiamo tra un po’” “Ok Indie, ma mezzora e sto qua, ora è meglio che mi faccio una birra, tu mi stai mandando al manicomio!!” ed Indie “io ti sto aspettando già” e lasciò intendere che lo stesse aspettando sia per il prosieguo del soundcheck e sia per il manicomio. Si avvicinarono e senza parlare Indie le prese la mano per presentarsi in silenzio. “Seah, mi chiamo Seah se ti interessa” disse lei “e tu sei Indie, lo sanno tutti, parliamo un pò?” Seah, esile, scura di capelli, fisico invidiabile sinuoso e sexy. Indie la guardò fronte-retro mentre si avviavano nella saletta delle chitarre detta anche il camerino, dove di solito si faceva lezione. l’aiutò a salire dapprima sul palco e poi a scendere nel camerino. “Di cosa vuoi parlare, dei tuoi occhi? No quelli parlano da soli cara Seah, e le tue labbra, Seah, chi le ha disegnate? Sono belle come un tramonto autunnale” “Vai dritto al dunque Indie, mi hanno parlato molto di te, ma mi sorprende che…” e mentre diceva questo Indie cominciava ad avvertire qualcosa di familiare nella sua voce. “..tu non mi riconosca”. Ecco, il suo desiderio primario di qualche anno prima si era materializzato in quel momento. Seah era la sua terra della tenacia, la sua terra del sempre voluto, ma mai usato, ma mai abbandonato. Seah era il suo strano rifugio mai abitato. In Seah si nascondeva a volte anche se Seah non lo sapeva. Era l’ora per unire silenzio, tenacia ed amore? non l’aveva mai capito. Indie non riusciva a capirlo, o semplicemente faceva bene a non capirlo. Voleva restare Indie, ma sentiva che in qualche modo doveva cambiare. O meglio dovevano cambiare le cose. Cominciò a riconoscere le sue mani, e le sue braccia gli ricordarono un abbraccio un giorno che andò via da lei. Quanto avrebbe voluto baciarla quel giorno, ma non ne ebbe il coraggio. E quando girò le spalle gli sembrò che lei volesse lo stesso, ma lo potè solo immaginare, come del resto Seah sembrava frutto della sua immaginazione. Le accarezzò i capelli ed infilò la mano destra calda di arpeggio sul collo, le massaggiò la base della nuca e la tirò a sè a pochi centimetri dalle sue labbra. Lei si lasciò trasportare ed i suoi occhi cominciarono a guardare in basso. Il respiro si fece più forte così come il battito cardiaco cominciò a pulsare più frequente. Ogni colpo di cuore era un colpo di cassa ed Indie ne approfittò per comporre una sua personalissima versione di heartbeat. I corpi erano attaccati adesso e gli occhi si fissavano, le labbra si sfioravano e nessuno dei due osava andare oltre. Il calore della carne, il profumo della pelle, l’eccitazione, il respiro, il gesto, le mani tra i capelli e poi le mani sui fianchi di lei. Un sussulto, un desiderio durato anni, le mani di Seah attraversarono la sua schiena verso l’alto fino a scontrarsi con i suoi capelli ed il suo collo, Indie fece lo stesso salendo allo stesso modo. Il cuore a mille, l’eccitazione a mille, respiro, urgenza, cervello, mano, corda, aria, respiro, e poi respiro, urgenza, cervello, mano, corda, aria, respiro. Seah non resisteva più, il cuore le batteva troppo forte ed Indie era dentro di sè. Un istante solo e la tenacia sarebbe stata premiata, il sogno realizzato, o forse infranto. Il telefono vibrò: Fly recitava e Fly poteva interrompere o dar vita ad ogni cosa per Indie. Abbandonò Seah in quello stato e scappò via cercando di uscire per rispondere presto, per respirare in tempo e calmarsi per un tranquillo rientro nelle terre del silenzio.

[^]

Cap.15 – Fly

La terra della vita, Fly, la sua voce migliore, la sua luce di salvezza, la sua speranza. Fly, la sua voglia di volare, la sua voglia di saggezza, di cultura e spensieratezza. Fly, la sua amica ubriaca, la sua amica sobria, la sua amica “suono”, la sua amica timbrica. Fly, la sua amica. Interveniva per dare un senso alle sue cose, Fly interveniva. Scopriva ogni singolo angolo della sua mente, Fly scopriva. Fly, la sua linfa vitale, la sua clorofilla in uscita da Indie foglia ormai cadente. Fly, la sua certezza, la sua definizione, il suo assioma, il suo teorema dimostrato. Fly il suo limite, la sua forma indeterminata. Fly, l’insieme dei suoi numeri, delle sue parole, Fly, l’insieme delle sue note e dei suoi accordi, delle sue composizioni dei suoi pianti e delle sue gioie. Fly, l’insieme delle sue emozioni delle sue vittorie e delle sue sconfitte, Fly, fly with me, fly away with me. Fly, la sua dolcezza, Fly la sua amarezza. La luce bassa, fly, la penombra e la certezza del mattino. Fly la sua ispirazione, FLy il tramonto di Novembre, Fly il profumo settembrino, il letto del suo fiume, l’altezza della sua montagna. Fly il profondo del suo mare, l’ampiezza e la bellezza della sua terra. Fly, eternamente fly. Fly la sua norma, fly la sua infrazione alla legge eterna, fly la continuità della sua incontinuità. Fly il suo cuore, fly i suoi gesti, il suo muovere la testa. Fly il suo riempirsi la testa e gli occhi, fly le sue emozioni mancate. Fly a telefono, “Fly”, “Ciao vita mia!” disse lui “ancora una volta mi hai salvato dalle terre che tu già sai”. “Tesoro come mi hai chiamato? Oddio non ce la faccio, non può essere!” per la prima volta la voce di Fly era diventata malinconica al sentirsi chiamare in quel modo. Non doveva essere così eppure aveva sentito bene, ma glielo richiese: “Come mi hai chiamato Indie? Dimmelo di nuovo ti prego!”. In quei momenti la mente di Indie cominciava ad andare veloce indietro. Rewind verso quello che aveva pensato detto fatto. Sono questi i momenti in cui si giocava tutto. Se dici una cosa del genere devi assumerti le tue responsabilità. Se dici “vita mia” stai dicendo “vita tua”, stai dicendo vita, stai dicendo di quanto più grande è quello che hai. Fly, piangeva, Fly il suo pianto. Fly pensava, fly il suo pensiero. Fly il suo volo, Fly la sua caduta, fly il suo riparo, fly il suo rifugio. fly il suo sonno, fly la sua notte. fly la notte ed il giorno, il mattino ed il pomeriggio, fly il divenire. Indie respirava di lei, respirava fly. Fly la sua composizione il suo music book, fly il suo libro, la sua passione per ciò che arte, il suo talento la sua natura, le sue terre, racchiuse in un’unica sola infinita interminabile terra. fly l’unica terra. “Live to fly, fly to live, do or die” rimbombava nella sua mente. Indie non ritrattò: “ti ho chiamato vita mia, perché?” e Lei: “perché? perché lo hai fatto, perché lo hai detto?” Fly piangeva. A volte il mondo era così strano da capire, così pericoloso da accettare così assurdo da intuire. Indie rispose “perché é la verità, ed è curioso che tu reagisca così”. Indie credeva di aver firmato una cambiale con quella frase, ma Fly sapeva che non era così. Fly la sua parola, fly la sua consapevolezza, fly il suo dono più caro, fly la sua musica ed il suo suono, fly il suo do maggiore. Fly la sua urgenza, fly la sua esigenza il suo orgoglio, la sua voglia, il suo desiderio il suo tutto il suo inesorabile niente.

Impensabile per Indie mollare tutto per una frase che aveva detto, impensabile come il modo in cui era scappato per poter rispondere a telefono.Chiuse la conversazione con un semplice ciao e cercò di recuperarre tutto ciò che aveva lasciato in piedi nel circolo. Immaginava che Seah ormai fosse andata via, scappata, oppure seduta a terra in un angolo a pensare cosa aveva detto di sbagliato, di errato, cosa era stato a far scappare Indie in quel modo. Forse il suo odore, forse il suo sguardo aveva smesso di essere profondo al punto da rendere più importante una telefonata che stare lì con lei. Mentre correva verso il circolo, attraversò via Loria nuovamente ed entrò nella sala correndo verso il palco. Vi salì e vi ridiscese per entrare nuovamente nella saletta. Sorpreso di trovare Seah nella stessa, immobile posizione di prima, quasi come se il tempo si fosse congelato per quei minuti e nulla fosse cambiato in quei frangenti. Seah era lì immobile ed in piedi a fissare il vuoto nella stessa identica posizione in cui Indie l’aveva lasciata per correre fuori. Indie riprese fiato e come chi ha lasciato la carne sul fuoco si avvicinò a Seah lentamente, ma questa volta alle sue spalle. Le prese i fianchi ed il tempò ricominciò a scorrere. Seah si rianimò ed avvicinò il suo corpo verso quello di Indie e lasciò cadere la sua testa indietro mostrando ad Indie il suo meraviglioso collo. Indie le baciò il collo teneramente alla base e via via piano piano saliva verso il lobo dell’orecchio, mentre le sue mani cominciavano a muoversi dapprima insieme verso l’alto. Seah alzò le sue braccia per dare spazio all’esplorazione e le portò dietro di se dietro la testa di Indie cominciando a massaggiarla. A questo punto il ghiaccio era sciolto, il calore dei corpi era tanto e le mani di Indie cominciarono ad essere più audaci. Mentre dapprima si muovevano in maniera del tutto simmetrica e speculare ora la destra saliva verso il seno di Seah e la sinistra si inoltrò in mezzo alle sue gambe. Un gemito di piacere immenso accompagnò quel gesto che divenne in un attimo più energico ed appassionato. Indie iniziò la sua personalissima improvvisazione sessuale suonando le corde giuste e facendo sì che quello strumento umano emettesse suoni di piacere. Seah si lasciava suonare con un trasporto unico ed Indie era completamente estasiato. Milioni di note, di respiri, di urgenze e di accordi riempivano la stanza di odori e gemiti e canti di assoluto ed infinito piacere. La cosa che avvolgeva di più quella unità rappresentata da quella coppia era l’energia di quel volersi scambiare ogni singola emozione con forza e passione. Seah, il suo sesso, Seah la sua passione. Seah il suo corpo, Seah il suo abbandono. Il ritmo diveniva sempre più alto ed i gemiti sempre più forti, il canto saliva verso tonalità più alte e difficili e le esecuzioni di Indie sempre più complesse ed articolate. Le sue dita si muovevano ormai veloci ed audaci fino a coprire ogni singola corda di quel corpo scolpito dalla natura. Indie chiudeva gli occhi mentre disegnava il corpo di Seah grazie alle sue mani. Abbandono, piacere, grazia, passione, delicatezza, rispetto e sensualità. Erano le parole che avrebbe aggiunto al suo personalissimo mantra, ma decise di non usarle così spesso e decise di non mettere nel suo repertorio quello che stava accadendo in quel momento. La temperatura saliva e così l’eccitazione. Le crome divenivano semicrome e così si affrettavano verso cascate di biscrome fino a raggiungere insieme il punto coronato del finale ad libitum. Troppo bello per essere l’incipit di quella sera, forse troppe emozioni usate già in quel frangente, ma di sicuro un momento di pura indipendenza e libertà. Seah si ricompose ed andò via correndo. Indie cercò di chiederle se fosse rimasta quella sera, ma lei arrivata alla porta della saletta si girò e lo guardò con quegli occhi ormai stanchi per il concerto appena eseguito, lo guardò quasi per voler fissare tutto quello che era successo con un solo scambio di occhi. Cercò di congelare quel ricordo semplicemente guardandolo negli occhi. Indie rimase fulminato ancor di più e decise che non era il caso di incontrarla mai più. Seah scappò via quella sera e scappò via per sempre, non era più il suo territorio e forse non era mai stata lì. Indie riprese le sue forze, si ricompose e risalì sul palco. Prese in braccio Mercoledì e cominciò a suonare. Benny che aveva assistito dall’esteno della sala alla fuga di Seah cominciò ad avvicinarsi alla porta con calma e rientrò dietro al mixer come se nulla mai fosse successo. Non intraprese alcun tipo di discussione ed alzò il volume della chitarra di Indie. “Ricominciamo” disse ” da dove abbiamo lasciato”. Il soundcheck riprese come se quella storia non fosse mai successa. Indie era scarico adesso e le note gli uscivano con una naturalezza ancor più grande. Indie era Seah, Indie era Mercoledì, Indie era quella sala, quelle note, era il tutto in un’unica grande passione ambulante. Suonò la sua ultima nota e posò Mercoledì nella sua custodia. Alzò gli occhi e vide Libera che lo guardava fisso con le lacrime agli occhi. Era il suo turno ora, doveva provare con i Pocket full of clouds il concerto di apertura della serata finale del fall festival. Indie andò verso di lei e la sfiorò mentre gli sguardi si intrecciarono in un lungo domandarsi perché. Indie si mise di fianco a Benny al mixer e gli diede una tenera pacca sulla spalla. Come una combriccola di gatti verso l’unico piatto pieno di latte, i pocket si avventarono sul palco e presero posizione per il grande momento del soundcheck. Indie si rilassò, lasciò andare le braccia e pensò a Fly, alle sue lacrime, a Libera ed al suo sguardo disperato ed a Seah ed al suo ultimo inesorabile sguardo dalla porta. “Tutto passa, anche io passerò” disse all’amico fidato. Intanto Benny non annuì ne dissentì, ma di certo ebbe anche egli un colpo al cuore e una lacrima gli segnò il viso.

[^]

Cap.16 – Libera

Libera, il suo buio, Libera la sua notte, Libera il suo tormento, Libera le sue manie. Libera era la sua fine, il suo punto di arrivo, il punto di arrivo di ognuno. Libera era l’argomento da tener sempre presente quando ci si rapportava con il mondo. Libera era l’argomento da tener presente quando ci si rapportava con Fly, Libera era da sempre presente e presto poteva diventare il suo futuro. Libera suonava Indie con una semplicità tale da farlo impazzire. Libera conosceva ogni punto di Indie, ogni signolo punto debole. Libera conosceva le strade che portano alle terre del silenzio di Indie e sapeva come e quando trovarlo in ogni punto del mondo, in ogni punto del circolo. Libera era presente in ogni sua attività e sapeva quando intervenire e recuperarlo. Ora era uno di quei momenti. Libera lo guardava dal palco del circolo e sapeva che quello poteva essere il giorno, Libera poi pensava a quello che era successo e si disperava. Libera il suo sonno, Libera il suo risveglio. Libera il suo male, Libera il suo bene eterno. Indossò la chitarra come un vestito e le sue splendide mani affusolate cominciarono ad accarezzarla. Indie mise le cuffie come era abituato a fare quando Libera suonava. Poi mentre lo faceva si rese conto che era la prima volta che Libera lo guardava così intensamente. Indie era abituato al fatto che Libera “non lo guardasse”. Il suondcheck cominciò inesorabilmente ed egli tolte le cuffie uscì di nuovo senza voler ascoltare. Rubò le chiavi del motorino di Benny e si diresse da zia Giulia a farle, secondo lui, una sorpresa.

[^]

Cap.17 – Zia Giulia

Zia Giulia era lì che lo aspettava, non poteva immaginarlo Indie, ma in realtà bastava pensarci un attimo in più. Zia giulia lo conosceva forse meglio di ogni altra persona e sapeva bene che cosa stava passando e cosa stava per succedere. Zia GIulia lo aspettava come solo lei sapeva fare appoggiata al termosifone con lo sguardo fuori dalla finestra. Quando si accorse che stava venendo in motorino si urtò. Non sopportava che Indie usasse un motorino, era troppo pericoloso per lei. Era troppo instabile per lei camminare su due ruote. Era troppo instabile per lei fumare, Lei che aveva cominciato quando aveva 12 anni di nascosto alla stazione di Salerno per ripararsi dai tedeschi. Zia Giulia aveva la tipica consapevolezza di chi è stato educato così, fascista dentro casa e democristiana alle urne, ma tanto di sinistra nei rapporti col mondo. Trecentosessanta gradi di angolazione politica, ma sicura dei suoi assiomi e delle sue teorie. Zia Giulia era il pane e sale di Indie, la sua famiglia, l’unico suo contatto con la crescita della sua mente. Aveva bisogno di rifugiarsi da lei per poter respirare della sua saggezza. Aveva bisogno di sentirle dire che era tutto ok e che non doveva preoccuparsi più di tanto se il suo mondo era in discesa. Aveva bisogno di un altro caffè, ma questa volta da solo. Aveva bisogno delle sue mani callose e della sua voce rassicurante per poter respirare l’aria della tranquillità d’animo. Come quando un grande atleta deve affrontare la sua più grande impresa per battere il record personale, aveva bisogno del suo guru personale e del suo momento di meditazione pura. Zia Giulia nel suo edificio era una celebrità e la casa era un porto di mare. Da poco era andata via la signora apparentemente pazza che abitava sullo stesso pianerottolo, la signora Silvia ed i suoi gatti era straconvinta di un progetto pedagogico creato interamente da lei, e ne parlava da circa 40 anni senza mai realizzarlo. I suoi gatti l’avrebbero realizzato di sicuro in meno tempo. Al piano superiore invece c’era un batterista, il batterista più bravo del palazzo. Del resto era solo lui. Deliziava i pomeriggi tranquilli del palazzo con studi improbabili ed una voglia esagerata di musica italiana. Incomprensibile davvero. Ancor più su della palazzina a cinque piani viveva la signora zenzero. La signora era dotata di un fortissimo accento agro nocerino sarnese che le configurava la bocca come la regina d’Inghilterra. Infatti gli abitanti dell’agro nord di salerno avevano questa caratteristica pronuncia della lettera “e” che diventava “ae” all’inglese. Nelle sue deformazioni peggiori anche la lettera “a” a volte poteva trasformarsi in “ae”. La signora zenzero era cintura nera di “ae” di conseguenza Indie non riusciva a non ridere quando lei pronunciava cose del tipo “Signò so andata a mare l’acqua era maerrone” oppure “Signò oggi se n’è juta a curraent!” traduzione “Signora oggi è andata via la corrente elettrica”. Indie adorava quella palazzina dove era cresciuto e ogni volta che vi si avvicinava in qualche modo faceva il suo appello mentale per verificare se fossero tutti ancora presenti. Salì gli otto scalini che contava sistematicamente dopo aver sistemato il motorino nel cortile ormai spoglio di alberi. Pensò “Benny mi ammazzerà”. Bussò alla porta ed il sorriso di zia GIulia era lì davanti alla porta ad attenderlo come sempre. “Ti stavo aspettando Indie, lo sapevo che saresti venuto oggi” e Indie per niente sorpreso che la sua sorpresa non era assolutamente riuscita confermò:”non avevo dubbi, ma tanto lo sai zia che quando ho qualcosa di importante da realizzare vengo prima qui, dal mio guru vecchietta preferita. Fammi il caffè, ti prego”.

Zia Giulia si apprestò al suo ormai notissimo rito e guardando per bene Indie gli disse:”sei stravolto, non devi dirmi niente? dai la prima volta che vieni senza Libera alle calcagna non mi racconti che hai combinato oggi?” e lui:”zia che vuoi che ti dica, le cose sono strane, procedono in modo strano ed io mi sto un po’ preoccupando. Non mi aspettavo oggi di incontrare una persona così magnetica, e non mi aspettavo di cadere in tentazioni proprio oggi che devo dare il meglio di me, ma so che un tuo caffè mi darà la carica giusta per affrontare tutto quello che deve accadere. Libera sta facendo ora il soundcheck e non ce l’ho fatta ad ascoltare.”. Zia GIulia intuì che il momento più importante stava per avvicinarsi e per questo un po’ si intristì, ma poi pensandoci bene, ed in maniera molto egoistica pensò meglio così. In fondo lei sentiva in qualche modo che Indie fosse tutto suo e di nessun altra. Avvertiva che Libera aveva quella forte influenza che aveva su tutti, e questo in qualche perverso modo le faceva piacere. Fine del rito inizio della mescitura. Il caffè era pronto ed Indie non appena lo assoporò si sentì subito meglio.

“Che devo fare?” disse chiedendo al suo guru vecchietta.

“Devi stare tranquillo, questo è un momento di grande transizione, devi affrontarlo con la consapevolezza che dopo sarà tutto meglio caro Indie. Sai quante volte l’ho dovuto dire e quante volte ho dovuto raccontare cosa fu per me un passaggio di tale importanza. Tu sei la mia gioia Indie, voglio che tu stia tranquillo.”

Quelle parole suonavano come un assolo di David Guilmour per le orecchie di Indie. Erano tipo l’assolo di “Time” oppure come l’inizio di “Shine on you crazy diamond”. Limpide parole e decise esternazioni di saggezza e precisione. Cristalline note per il suo registratore interno. Grandi parole da portarsi dietro per il resto della vita, per il resto della morte. “Non mi serve altro zia, tu mi dai tutto quello che serve in pochi minuti ed in poche parole. Tu mi dai quello che voglio senza volere nulla in cambio se non la mia felicità e la mia serenità, tu sei quello che serve al mondo, una saggezza limpida, tradizionale e semplice come il sale sul pane. Sei quello che ogni persona dovrebbe avere prima di fare ogni azione, ogni scelta, o di affrontare qualunque cambiamento. Dovresti essere considerata come un bene nazionale e perché no come una meraviglia del mondo. Non l’ottava, bensì la prima in assoluto. Sei e sarai per me e per tutti quelli che si rivolgono a te l’oracolo del mondo e della vita. Grazie per fare tutto questo”. Disse questo e l’abbracciò in maniera molto energica e sentì come se le povere ossa di zia Giulia si sgretolassero e divenissero cenere per quell’intenso coinvolgimento emotivo. Zia Giulia pianse di gioia e lasciò che Indie facesse il suo ritorno al circolo. Era lì che doveva esibirsi ed era lì il posto in cui avrebbe avuto il suo momento di gloria, era lì che si sarebbe manifestato il suo cambiamento.

Discese le scale di corsa, saltò sul motorino di Benny sperando che non se ne fosse accorto e sgusciò fuori dal cortile come una saetta. Questa volta scelse il lungomare per lanciarsi nuovamente nella zona orientale della città e quindi nella zona orientale del circolo. Pensò a quel suo sogno ricorrente, volando sulla città.

[^]

Cap.18 – Il sogno ricorrente

Una casa condivisa da molte persone. Una comunità di persone simpatica nelle campagne dell’emilia. Una casa con molti artisti. Ormai li conosceva tutti per bene e quando li incontrava in sogno li riconosceva come se fossero sempre vissuti con lui. Gli sembrava come se avesse vissuto tutte e due le vite, da sveglio ed in sogno e non sapeva bene alla fine quale fosse quella corrente. Le viveva tutte e due, solo una più dell’altra. E da una riusciva a ricordare l’altra come in un pazzo dualismo ideale. Come avere due case, due famiglie, due mestieri, due modi di affrontare il mondo ed avere il manifestarsi di questi in maniera del tutto casuale senza riuscire a governare quando restare in una o l’altra vita. Il suo sogno ricorrente era proprio questo, vivere in comunità. Una comunità di artisti pazzi, simpatici nelle campagne dell’emilia. Chissà perchè l’emilia. Mah. L’ultima volta che aveva sognato questa cosa però gli abitanti gli avevano detto che non aveva avvisato che avrebbe dormito quella notte lì e che quindi aveva sbagliato e che era un grosso problema la sua presenza. Indie non ne era rimasto colpito più di tanto. Il suo senso di non appartenenza riusciva tranquillamente a vestirsi dei rifiuti che riceveva dalla società. Era come dire abituato ad essere considerato “non parte” di qualcosa. Era uno status che conosceva bene in tutte e due le “irrealtà” o realtà che siano. Quindi in quel sogno era stato cacciato dalla comunità e quindi adesso viveva in una sorta di paradiso digital virtuale da diseredato dal mondo dei sogni, da emarginato dalla irrealtà. Indie era diventato più indipendente nei sogni, più che nella realtà.

L’aria fresca del lungomare gli dava però la certezza che il suo era un sogno e che quindi la realtà parallela principale era quella del motorino di Benny. Ripensò a Seah ed il suo stomaco si contorse come se avesse digerito un boccone amaro. Il ricordo era meraviglioso, ma il pensiero di un non futuro gli spezzava la schiena. Forse era stato un errore, o forse era stato semplicemente un azzardo. Forse era stato un toccasana oppure l’ultimo pasto di un condannato, ma senza dubbio era stato molto, ma molto esaltante. Seah dal canto suo era svanita nel nulla ed il nulla faceva pensare che sarebbe tornata mai. Era come un grosso evento in un piccolo posto. Non ci entra. Indie era comunque sicuro che quel giorno sarebbe rimasto nel suo database per tanto tanto tempo. e questo lo rendeva comunque molto ma molto felice.

Arrivò alla zona orientale ed arrivò quindi al circolo nuovamente. Parcheggiò il motorino e come un ladro si infilò silenzioso nel circolo che misteriosamente era diventato vuoto. Vuoto ormai come la sua mente. Zia Giulia l’aveva aiutato molto e si sentiva pronto ad affrontare ogni cosa. Attraversò la porta della sala e nulla, non c’era nessuno. Ritornò sul luogo del delitto e qui era rimasto solo l’odore di tutta quella passione. All’improvviso la luce si spense ed Indie rimase come impietrito rispetto all’evento, ma era pronto a tutto. Era nel buio totale, il circolo era al buio totale, così come la città era al buio totalmente. Sembrava che si fossero tutti ritirati improvvisamente a casa e non era rimasto null’altro che Indie ed il suo respiro. Chiuse gli occhi tanto non serviva lasciarli socchiusi. All’improvviso al suo respiro se ne affiancò un altro, ma questo alitava nel suo orecchio come se qualcuno volesse sussurrargli qualcosa. “Indie… ti prego abbracciami”. Questo arrivò al suo orecchio destro. “Indie ti prego fammi sentire il tuo abbraccio ancora una volta”. Poi la luce si accese di colpo e si accorse di essere ancora solo. Con la luce erano tornati tutti e sul palco c’erano i Pocket che facevano i suoni. Lui ormai dietro al palco nella saletta non credeva a quello che era successo. Le persone si erano materializzate nel circolo e lui era passato attraverso, ma era pronto a tutto e quindi da quella posizione riusciva ad intravedere la silouette di Libera che faceva le ultime prove, lo stesso lato b che lui amava così tanto. Era l’ultimo brano prima della pausa di riflessione e quindi della serata. Andarono tutti al bar dove Marco offrì a tutti da bere.

Intanto le persone che Indie aveva invitato con l’aiuto di Benny cominciavano ad arrivare ed Indie non aveva nessuna difficoltà a ricordare per ciascuno di essi la storia che portavano con se. Indie era convinto che ogni persona avesse un universo a se da portare sempre addosso e che solo alcuni non lo portavano. Erano gli stessi che egli odiava. Erano quei soggetti senza mondo e quindi senza carattere che Indie non sopportava. Le persone che invece, come una specie di Atlante moderno, portavano il proprio universo addosso fluttuavano nel suo mondo e Indie ne ricordava vita, opere e omissioni. Aveva un hard disk nel cervello di capacità pressoché infinita e avrebbe potuto raccontare una storia per ogni persona che entrava in quella sala senza annoiarsi e senza annoiare nessuno mai. Un po’ tutte quelle persone che erano al banco del circolo a bere gli ricordavano la comunità del suo sogno ricorrente. Si, alla fine simpatici alternativi artisti e cordiali come solo gli artisti puri sanno essere. Indie era convinto che un artista od un’artista dovevano essere rispettivamente un Uomo ed una Donna prima di essere Artista. Per cui se vedeva personaggi pavoneggiarsi del proprio talento li cancellava come neve al sole. Il talento è un dono. Sarebbe come vantarsi di avere una Ferrari che ti è stata regalata.”Non l’hai guadagnata”, pensava Indie, “te l’hanno regalata, perché te ne vanti come se l’avessi guadagnata?”. E così l’allegro esercito di artisti se ne stava al circolo come nella casa comune dei suoi sogni. Ed Indie alternava il suo essere tra Fly e Libera con uno sguardo a Seah. Questo pensiero ricorrente come il suo sogno gli fece fare una risata spontanea e fragorosa al bancone del bar del circolo. Rideva della sua stessa condizione e si divertiva a pensare di non essere l’unico pazzo della terra. Benny lo seguiva anche quando gli veniva da ridere apparentemente senza motivo. “Allora sei pronto per la grande esibizione fratello?” disse Benny mentre gli perdonava tutte le malefatte della giornata. Indie si guardò intorno, scese dallo sgabello, si rimise a posto, e pensò “cavoli se sono pronto” e disse:”lo sono anche per affrontare un drago incazzato! Stasera demoliremo il circolo, nel senso buono stai tranquillo !! Ma prima devo fare una cosa…” Detto questo la preoccupazione di Benny tornò alle stelle. Le cose che Indie faceva all’ultimo momento erano più che pericolose. Poteva tranquillamente oscillare da andare a dormire, a sparire oppure a partire e non tornare per giorni fino a non fare nulla oppure passare da casa a giocare col gatto Pinky. Si Pinky, l’aveva chiamato come il personaggio di The Wall, film che aveva visto circa 13 volte e che avrebbe potuto cantare a memoria senza sosta tutta la colonna sonora compresi i pezzi inediti usciti solo con il film di Alan Parker. Indie uscì dal circolo nuovamente a ritrovare la forza chissà dove.

[^]

Cap.19 – La quinta stagione

Indie non sapeva se questo fosse il mondo migliore possibile, ma di sicuro avvertiva l’urgenza e la possibilità di provare a migliorarlo. Indie credeva che ci fosse un modo in cui le persone cominciassero a pensare davvero, visto che si trattava di una delle poche cose gratis che erano rimaste nel mondo. Pensare e crearsi dei dubbi per affossare delle certezze comuni che per millenni stavano rovinando l’umanità. Indie era indipendente anche dal suo dio personalissimo che si era creato.

Vagò fuori dal circolo pensando: “Sono in preda ad un raptus da cambiamento, sono in preda ad una crisi di panico o sono davvero nei pressi del bivio di cui avverto la presenza? Sarò ormai e di nuovo di fronte alla porta incontrata nelle terre del silenzio? Starò per diventare pazzo o lo sono sempre stato? Sono Indie ed ho capito, ma chi altro sono e chi altro diverrò?” Decise di rilassarsi nuovamente e si sdraiò sul muretto sul lungomare. Braccia dietro la nuca, gambe tirate al corpo, pancia in su, occhi chiusi, pronto per un nuovo viaggio. Immaginò il suo foglio bianco sulla scrivania vuota avvicinarsi alla sua faccia e quindi coprire il suo spazio visivo fino in fondo. Quella luce svuotò la sua mente e diede spazio ad un paesaggio nuovo. Una visione stellare e meravigliosa di un mondo che non aveva mai visto in cui i colori primaverili di margheritine ed alberi in fiore si mischiavano ad alberi con foglie cadute a formare tappeti croccanti. Farfalle e rondini si alternavano a gabbiani e storni ed il sole caldissimo lasciava spazi a scrosci di pioggia e camere di nebbia. Un mondo nuovo in cui la tassanomia stagionale scompariva e formava una stagione nuova, la quinta. La sua personalissima quinta stagione appariva ai suoi occhi chiusi con forza e potenza e come una esplosione di colori pronti a formare frattali stupendi da cui non poter uscire mai più. Vide il mondo che aveva sempre sognato in cui ogni essere in possesso di una linfa vitale potesse coesistere con gli altri senza danneggiarsi, senza arricchirsi alle spalle degli altri esseri, senza vivere alle spalle degli altri oppure grazie alla morte degli altri. Un mondo senza regole, ma senza guerre, un mondo senza religione ne preti ne padroni ne potenti. Un mondo senza gerarchie e senza livelli sociali. Tutti allo stesso identico fantastico livello, inverno, estate, primavera ed autunno in un calendario fermo ad un giorno particolare, quello della quinta stagione. Una stagione in cui il mare è calmo ed è lungo ed è agitato e tempestoso nello stesso istante. Una stagione in cui l’arcobaleno parte con i suoi colori e diventa a toni di grigio dopo un pò. Alberi che fondano le radici su terre che amano gli alberi e piante che non devono lottare con l’asfalto per pote uscire fuori. Un mondo dove le auto non esistono, dove i palazzi non esistono, dove la natura regna sovrana ed il progresso è fermo allo spazio temporale precedente. Tutto è fermo allo spazio precedente. Ogni cosa non nasce e non muore, ogni cosa vive in eterno ed in eterna condivisione con le altre cose. Ogni cosa è viva, parla e comunica con ogni altra cosa. Indie aveva sempre pensato che anche nel mondo delle 4 stagioni ogni cosa parlasse, anche le pietre, ma che avevano smesso di farlo da quando l’uomo aveva cominciato a distruggere il pianeta. Il suo viaggio era accompagnato dalla più bella colonna sonora del mondo, il suo silenzio. Un silenzio così assordante da rendere tutto immerso nel suo personalissimo acquario in cui questa volta Indie affogava quasi senza speranza fino a che una mano gli accarezzò il viso. Riconobbe il gesto e il calore assente della mano di Libera. La quinta stagione sparì dalla sua mente e la sua mano afferrò con dolcezza quella di Libera. Aprì gli occhi e la guardò intensamente. Lei fece lo stesso e tenendosi per mano si avviarono verso il circolo nuovamente. Questa volta LIbera l’aveva recuperato non da una situazione di baratro, ma da una sensazione di piacere mentale e fisico. L’aveva riportato al mondo delle stagioni come tutti le conoscevano e gli aveva detto di seguirla. L’aveva guardato e gli aveva detto che quella era l’ora. Era quella l’ora dell’ultimo spettacolo del fall festival. Era quella l’ora in cui tornava sul palco anche per suonare, era quella l’ora di potersi rivolgere a tutti e dire come stavano le cose. Indie avvertiva questo momento come un momento solenne, eppure stavano per salire su di un palco non su di un patibolo. A volte certo le cose si somigliano e difficilmente si riesce a distinguerle, ma non era questo il caso. Indie e Libera, si avviavano verso il circolo. Indie si fermò di colpo e tirò a se Libera dicendole “mi hai chiesto di abbracciarti prima nel buio del circolo ed ora, lo farò”. Mantenne la promessa nel bel mezzo della strada più trafficata della città. Agli automobilisti non sembrava vero che quella entità fosse ferma al centro del lungomare come in una estasi profonda. Le auto potevano solo o fermarsi o schivare quella scena, ma tutti restavano stupiti dalla luce che emanava. L’energia di un abbraccio supera ogni altra luce, ogni altra visione, ogni altra cosa. Rimasero così per alcuni minuti, la promessa era stata mantenuta ora si poteva procedere. La sala del circolo era piena, stracolma dei “profili” di Indie. Stracolma di tutte quelle persone che costituivano il suo mondo e di tutta quella gente che in qualche modo lo amava. Friends and foes, amici e nemici, storie belle e storie brutte, visi sorridenti e facce scure, flora e fauna, belli e brutti, tronfi e mesti. Tutti insieme a formare la sua quinta stagione, tutti presenti allo show di Indie ed alle sue parole in procinto di essere condivise.

[^]

Cap.20 – The speech

Il dubbio di Indie era sempre se preparare il discorso oppure no, se arrivare sul palco pronto a recitare quello che aveva studiato oppure andare a braccio. Il suo discorso iniziale del fall festival era abbastanza scientifico e questa preparazione servì ad ottenere un risultato molto soddisfacente. La gente era attenta e lui andava fluido essendo dotato di una memoria molto forte. In quei giorni aveva comunque maturato diverse esperienze ed erano successe moltissime cose per cui il suo discorso poteva in qualche modo rappresentarle e l’avvicendarsi delle nuove situazioni rendeva la preparazione un pò troppo difficile. Le cose cambiavano di continuo e soprattutto Indie cambiava di comtinuo insieme alle cose. L’esperienza del sogno ricorrente come quella della quinta stagione restavano cose indescrivibili, ma pur cose di cui avrebbe voluto parlare. Così come gli sembrava assurdo non tirar fuori qualcosa che avesse a che fare con la telefonata della Product Records a cui ancora rifiutava di pensare, così come gli sembrava indelicato nei suoi confronti non riuscire a mettere due parole su riguardo la storia di Seah, terra della tenacia venuta fuori dal nulla e concretizzata con una fuga post-amore. Il suo ritorno sul palco anche come musicista senza dubbio davca anche una serie di informazioni e di nozioni da dover necessariamente condividere con il mondo. Indie di argomenti insomma ne aveva un bel po’. Forse l’unica cosa era riuscire a metterli tutti insieme e tutti in fila per poter tenere la platea sveglia e soprattutto per farla riprendere dal suo concerto. I Pocket avrebbero suonato per 20 minuti circa e la gente sarebbe stata lì attenta a non perdere nemmeno un gesto di Libera sulla chitarra, come sarebbe stata attenta a non perdere nemmeno una nota. I concerti dei Pocket facevano un gran bene alle persone. Servivano a far pensare, a rendere la vita più pura. E’ strano come certe cose possano accadere, ma in realtà molte persone non sanno esprimersi in maniera tradizionale. Molte persone non riescono a parlare come gli altri, molte persone devono trasformare trasdurre il proprio pensiero in forme diverse dalla parola. I Pocket e libera in particolare erano capaci di trasmettere alle persone una sorta di assegno. Suonavano come per dire:”ricordatevi sempre questa cosa.. mi raccomando.. in ogni vostra azione cercate di tener sempre presente davanti agli occhi questa cosa.” Questo era il clima che riuscivano a creare mentre suonavano. Una cosa veramente strabiliante. Indie invece disegnava dei percorsi e la sua musica era capace di farti viaggiare. Passava attraverso il tempo e le terre. Attraversava la terra del silenzio e quella dell’amore ed accarezzava gli alberi, le piante, le foglie. Metteva le mani nell’acqua dei fiumi mentre passava leggiadra e veloce e risalendo sulla cima delle colline accarezzava i prati verdi. Indie ti trasportava in mondi mai visti, ti infilava sotto le coperte e ti permetteva di sognare. Indie ti rendeva felice. Libera ti faceva pensare, Indie ti rendeva felice. Il paradigma era sempre lo stesso e la tecnica inevitabilmente uguale per tutti: respiro, urgenza, cervello, mano, corda, aria, respiro, e poi ancora respiro, urgenza, cervello, mano, corda, aria, respiro. Il respiro di Indie si faceva più sereno. Sentiva nell’aria l’arrivo della sua ora. C’era senza dubbio da aspettare e l’attesa non era mai una bella cosa, ma per quella sera gli sembrava un’altra cosa. Attendere di parlare ai profili che aveva creato nella sua mente era una sensazione nuova. Diversa dalla prima sera, diversa da sempre. Diversa da tutte le volte che si era dato al pubblico ed aveva esternato le proprie emozioni. Tutte le sue tournee in passato non valevano quanto quella sera. Tutte le cose che aveva composto non riuscivano a descrivere le emozioni di qwuella sera. L’aria era pregna di emozione, l’aria era piena di ossigeno e si stavano già formando le strade che avrebbero accolto le note di Indie. Si sarebbero già intrecciati gli incroci, le sopraelevate, i ponti. Tutto quasi pronto per poter ospitare il turbinio di note e di colori che Mercoledì avrebbe sprigionato durante quella magica serata. Decise di bere e si avvicinò al bancone del circolo. Salì nuovamente sullo sgabello dove prima si era reso conto di essere sereno. Si sentì nuovamente così e chiese a Marco di dargli un rum. Adorava anche il rum, gli faceva avvertire una terra sempre amata e lo divertiva sempre un po’. Il rum era quella cosa che il suo stomaco non poteva accettare, ma che lui ed il suo cervello accettavano ben volentieri. Un po’ come il vino, molto meno pero’. A pochi passi da lui c’era Carl, uno scrittore che conosceva da poco, ma con cui aveva immediatamente stretto un bel rapporto di amicizia. Carl scriveva favole molto belle e profonde di quelle per bambini che servono agli adulti. Scriveva delle cose davvero toccanti tanto che una volta decisero insieme di fare un reading musicale. A Salerno non se ne erano visti tanti, e loro crearono una specie di moda. Infatti dopo poco anche altri cominciarono a fare così. Brindarono insieme al loro incontro ed alla giornata importante che aspettava Indie ed anche un pò tutti loro che erano lì. Ricordarono insieme una serata esilarante di quando andarono a parlare con “Mister Digiamo”, personaggio molto noto nell’ambiente salernitano possessore di un locale, per Indie e per quelli come lui, assurdo. Una specie di night club molto frequentato creato sullo stile trash anni 80 della serie: Edwige Fenech esce nuda dalla doccia e Lino Banfi oppure Renzo Montagnani la guardano dallo spioncino della porta. Mister Digiamo aveva avuto la splendida idea, splendida si fa per dire e quindi la pretesa di ospitare il reading nel suo locale durante una cena i cui ospiti erano tutti super mega ricconi altolocati con la puzza sotto al naso che fingevano di essere intenditori di vino, arte e musica jazz BLEAHH. La sera che Indie e Carl si erano recati da Mister Digiamo questi aveva tentato di illustrare la propria idea intersecando il suo discorso con mille “digiamo” che è in realtà la storpiatura di “diciamo” dovuta ad una evidente origine cilentana del soggetto. Poichè Carl sapeva che Indie era sensibile a queste cose l’aveva avvisato che quando Mister Digiamo avrebbe parlato quella sera, ogni due o tre parole avrebbe infilato il suo intercalare esilarante. Nonostante ciò, e forse proprio grazie a ciò, Indie passò la serata del discorso di Mister Digiamo a nascondersi per gli scoppi di risate improvvise. Indie e Carl ridevano ogni volta che ne parlavano e soprattutto Indie si era fortemente rifiutato a fare quella serata in quel posto, fuori contesto, fuori arte, fuori tutto. Alzarono i calici e brindarono nuovamente salutandosi.

Il discorso di Mister Digiamo era senza dubbio una cosa che Indie ricordava molto bene, era praticamente l’insieme delle parole che disegnavano esattamente tutto quello che non avrebbe mai voluto vedere, mai voluto fare, mai voluto organizzare, mai voluto far parte. Era come se in una registrazione della voce in una traccia ci fossero solo i rumori di fondo, cioè tutto quello che non deve essere riportato in un disco di qualità. Meno male che esistevano queste cose, era il modo per capire quali fossero le cose giuste, almento per Indie e per quelli come lui. Pochi istanti dopo come in una processione di saluti alla statua di un santo passarono quasi tutti i profili di Indie, tutti a salutarlo ed a chiedergli quanto e quando avrebbe suonato. Tutti a chiedergli cosa avrebbe fatto e detto quella sera, quasi come se fossero impazienti e quasi come se non volessero aspettare. Questa cosa ad Indie dava immensamente fastidio, questa cosa ad Indie dava ansia e non riusciva a spiegarsela.

“Cosa pensa una persona prima di fare un discorso?” si chiedeva Indie perplesso.”Cosa immagina, cosa pensa, cosa si aspetta, cosa dirà, come cercherà di aprire e come cercherà di creare attenzione senza farla perdere”. Tutti perdono attenzione in un discorso fatto da un’altra persona. Tutti prima o poi si addormentano. Indie voleva creare il discorso perfetto. Indie voleva catalizzare verso di se tutta l’attenzione possibile del mondo. Indie necessariamente doveva dare al mondo queste cose e voleva che il mondo le digerisse come lui le aveva digerite. Voleva trasmettere a tutti questa sua sensazione di indipendenza applicata alla vita innanzitutto, alla musica poi ed infine all’integrazione del proprio corpo con le terre del silenzio, della tenacia, dell’amore. Quest’ultimo aspetto era difficile anche per lui da accettare e da capire, ma sentiva che forse era l’aspetto più importante. Quello della quinta stagione, quello della integrazione della mente con il corpo, del vivere davvero con il vevere nella propria mente. Quel concetto Indie sapeva che aveva un nome, ma ora non riusciva a trovarlo e forse quella sarebbe stata la chiave di tutto il suo discorso.

Era ancora lì al bancone quando incontrò Charlie, amico di sempre, collega musicante. Aveva fondato con lui un gruppo e ne avevano fatto una bandiera. Avevano suonato per anni nei locali ed avevano creato una sorta di precedente per cui tutti quando fondavano una tribute band ed andavano a suonare cercavano di paragonarsi a loro. Negli anni passati erano stati come una unità di misura del gradimento delle band nei locali. Si sentivano dire cose del tipo:”se suoni al sessanta per cento di come suonano loro, sei sulla buona strada”. Avevano fondato la band che quando suona dal vivo si muove tutta la città. Uscivano articoli sui giornali il giorno dopo che avevano suonato con le richieste di aiuto degli inquilini dei palazzi circostanti il locale dove avevano suonato. Non smettevano mai di raccontarsi la volta che uscì quell’articolo intitolato:”Spegnete quel Fabula!”. Si il Fabula, glorioso locale di Salerno aveva ospitato centinaia di artisti di ogni genere e qualità e loro erano stati protagonisti di una stagione intera e ne parlavano sempre come una sorta di preghiera per il futuro. Indie ordinò un altro rum, mentre charlie scelse la sua amatissima grappa. Brindarono alla loro amicizia e come per gradire la processione continuò. Ognuno aveva, come spesso accade, una idea personalissima di come dovevano essere fatti i progetti di Indie. Se qualcuno in passato lo aveva ascoltato dal vivo, di sicuro dopo il concerto gli avrebbe detto:”sai, io ci vedrei un clarinetto” oppure “sai, io di certo ci vedrei delle immagini proiettate alle spalle.” Nessuno riusciva ad avere rispetto del fatto che il progetto era di Indie e niente più. Se non fosse stato così, magari si chiamava Slave, schiavo di ogni opinione altrui, e quindi mai se stesso. Come pensò a questo gli tornò in mente la questione Product Records e cercò di abbandonarla quanto prima alla velocità della luce. Intravide nel frattempo una sagoma avvicinarsi verso di lui, riconobbe l’andazzo e cominciò a sorridere alla sola idea che una persona, quella persona, fosse lì da lui ad ascoltarlo. Abbracciò Mauro con tutte se stesso e gli disse “fratello, che ci fai qui tra questi comuni profili mortali?” Indie aveva una stima di Mauro superiore ad ogni altra persona. Mauro rappresentava per lui la purezza e la pulizia, l’impegno e la determinazione. Ogni volta che si incontravano il tempo era sempre troppo poco per potersi raccontare, ma riuscivano lo stesso a tenersi sempre in contatto in qualche modo. L’ultima volta Mauro gli aveva detto:”vediamoci per un caffè” e poi aveva aggiunto come amavano sempre fare, “sai quanti danni può fare un caffè?” e di questa cosa ne ridevano tantissimo. Indie si rese conto che aveva tanti amici con cui poter ridere di qualcosa e questo lo intristì stranamente. Indie riusciva a rendere triste una cosa che per un’altra persona poteva essere una gioia ed una fortuna immensa. COn questo non è che credesse che avere degli amici non fosse una fortuna, ma semplicemente avere degli amici significava anche avere delle responsabilità. “Quando dici a qualcuno che gli vuoi bene in realtà gli stai mettendo il tuo cuore sul suo tavolo ed un coltello accanto e gli stai dicendo ‘fai di me quel che vuoi, ormai è tutto nelle tue mani’” Molte persone avevano fatto così con lui e lui non poteva e non voleva deluderle. Pensò che anche questo doveva far parte del suo discorso finale del fall festival. Cominciò a fare una tassonomia delle cose che doveva dire e cercò anche carta e penna per poter prendere nota di tutti quei pensieri. La testa cominciava a girare e si allontanò dal banco per potersi riavvicinare al palco. I Pocket erano seduti li vicino e parlavano tra loro, quando Indie si avvicinò e prese Libera per una mano e la portò via con se nel camerino.

“Ho bisogno del tuo aiuto per poter ricordare le cose che devo dire stasera, mi aiuterai? sarai al mio fianco?”

“Sono sempre al tuo fianco, davanti e dietro di te.” e sorrise non guardandolo nuovamente.

“Devo classificare le cose che dirò , mettere gli argomenti in ordine di priorità, devo ancora pensare all’apertura e cosa dire alla fine.” e Lei: “Cosa dire alla fine non è una cosa che puoi decidere ora e lo sai, cerca piuttosto un modo per cominciare bene vedrai che poi tutti riusciranno in qualche modo a seguirti”. Fu così che andò via la corrente nuovamente e Libera gli strinse le mani dicendogli:”sai è la prima volta che ho paura con te, pensavo che questo momento arrivasse, ma non così presto, ed ora ho paura”

Indie non capiva bene quando Libera diceva queste cose, ma dentro di se una vaga sensazione gli bruciava lentamente lo stomaco e gli diceva: “guarda che secondo me stai cominciando a capire”. La luce elettrica tornò di colpo ed il telefonino di Indie vibrò mettendo in evidenza il nome Fly. Indie girò il monitor del suo smart phone verso Libera e le fece leggere il nome. Lei girò la faccia e disse:”me lo fai apposta?” e Lui: “no dai ti prego fammi vedere che riesci a guardare questo nome senza problemi” e Lei:”non riesco, non riesco e lo sai, poi oggi ancor di più mi viene difficile se non impossibile.” Indie non riusciva ancor bene ad intuire questa epica battaglia e pur volendone stare fuori con tutto se stesso ci si trovava dentro con tutto se stesso.

Benny dall’altro lato del mixer parlò al microfono e la voce arrivò nelle casse spia disposte sul palco: “ragazzi, secondo me dobbiamo cominciare, la gente è arrivata e fra poco il circolo sarà pienissimo, Libera presenta tu la tua band, suonate, poi Indie sale sul palco suona e poi stesso da li pronuncierà il suo discorso finale e stop, siete d’accordo con la scaletta allora?” Indie annuì, i Pocket si guardarono e decisero che anche per loro era tutto ok. Benny abbassò le luci e la gente cominciò ad entrare nella sala. I pocket cominciarono a sistemarsi sul palco. La serata stava per cominciare, il grande finale, il grande ritorno di Indie sul palco del circolo il grande momento dell’unione delle terre, il momento della quinta stagione stava per arrivare.

[^]

Cap.21 – IndieFarm Records

Il mercato delle major era quello da cui Indie voleva scappare. Non gli piaceva affatto che un disco fosse considerato un prodotto e credeva fortemente nella creazione artistica come unico atto vero e puro da considerare e rispettare. Produrre un brano, una canzone, una colonna sonora, un film, per Indie significava produrre artisticamente e niente altro. Riuscire a realizzare qualcosa che raccontasse una situazione, un episodio, un pensiero, un desiderio, una sofferenza, quello gli interessava. Non aveva importanza che quel desiderio, o quella paura venissero poi vendute al mondo come merce. Quelle cose che aveva prodotto meritavano rispetto ed andavano esternate od al più distribuite. Il mondo doveva sapere come la pensava e soprattutto come pensava. Il mondo doveva sapere che Indie riusciva a comunicare tramite la sua musica e niente più. Non gli piaceva l’idea che qualcuno potesse fare delle sue esternazioni, della sua ecletticità, delle sue espressioni un motivo di ricchezza. Per questi ed altri trecento motivi Indie non riusciva a pensare alla telefonata della Product. Non riusciva a farsi capace che quella era la sua occasione da un lato, ma la sua fine dall’altro. Abbandonare la sua indipendenza e la sua voglia di condivisione artistica per entrare sui banchi e negli espositori dei negozi e vedere magari la sua timida faccia su fotografie e cose del genere su cartelloni nelle librerie. L’essere eventualmente trattato, considerato come una specie di fenomeno one shot, una botta e via, lo faceva stare malissimo. Si rese conto però che era la prima volta che ci stava pensando per un po’ di tempo in più rispetto al solito. Era la prima volta forse che le cose gli si formulassero davanti agli occhi con maggiore chiarezza. Era la prima volta che Indie vedesse la possibilità di non accettare senza troppi risentimenti. Però, che follia dire di no alla Product. Forse sarebbe diventato famoso comunque. Già immaginava i titoli dei giornali locali al mattino del primo dicembre: “Indie dice di no alla Product” oppure “Meglio indipendente!” e via qualche intervista di qualche pseudo giornalista. Indie spesso creava delle interviste nel suo cervello e le immaginava alla televisione. Spesso si vedeva seduto sulla poltrona di qualche talk show in cui il presentatore gli dava del lei e gli rivolgeva la parola con un foglio davanti. “Indie, allora come è stato passare dalla sua indipendenza di ‘unsigned’ alla sua schiavitù di artista major?” oppure “Indie come ha vissuto il passaggio dall’essere sconosciuto anche tra gli indipendenti all’essere superfamoso tra i ‘grandi’?” Queste cose gli facevano troppo ridere alla fine. Non poteva succedere quello che immaginava, ma lo immaginava e questo lo faceva succedere. Forse era anche per questo che sognava la sua quinta stagione dove il tutto poteva succedere insieme al niente. Negli anni precedenti a quel fall festival il suo desiderio era di aprire una etichetta discografica. Di far si che ogni artista avesse la sua possibilità di dire ci ho provato. Voleva che la sua etichetta fosse una social-etichetta e non una classica associazione no profit che poi no profit non poteva essere. Non voleva che l’etichetta avesse una sorta di “ragione sociale” ed una partita iva per poter essere controllata anche perchè sapeva benissimo che così facendo avrebbe semplicemente pagato tasse a vuoto su introiti che non avrebbe mai avuto. La sua etichetta doveva essere solo un modo per poter raccogliere e classificare tutte quelle anime che volevano fare musica per un fatto artistico e nulla più. Niente fissati per la musica pop italiana a tutti i costi, niente fissati per x “fucktor” o per bugie come “amici”. Niente fissati per i festival che servono solo alle reti televisive, niente fissati per il glamour a tutti i costi. Solo puri artisti che al primo tentennamento verso la notorietà nel senso classico sarebbero stati messi alla porta oppure semplicemente indirizzati verso altre realtà. L’avrebbe chiamata IndieFarm Records probabilmente per ricordare il nome del suo studio, ma questo probabilmente avrebbe fatto pensare ai gruppi indie-rock cosa che per Indie non aveva molto senso. Gli avevano rubato anche le parole ed era difficile riuscire ad utilizzarle senza cadere in doppi sensi o fraintendimenti. La IndieFarm Records degna di una etichetta come si deve avrebbe fatto le sue session di musica all’impronta, avrebbe invitato gli artisti di gruppi differenti a suonare insieme ed a produrre brani insieme. Avrebbe fatto delle feste in cui gli artisti potessero sentirsi parte di una cosa indefinita, aperta, open source in cui la condivisione non fosse solo di note, ma anche di pensieri ed opinioni. La IndieFarm records avrebbe avuto il suo festival ed avrebbe prodotto di sicuro i dischi. Avrebbe venduto i cd ad un prezzo equo considerando che la stampa di un cd costa alla fonte all’incirca 1 euro. Avrebbe cercato di raggiungere la notorietà per la qualità artistica dei musicisti artisti e non perchè l’ufficio stampa di turno sarebbe stato bravo a piazzare le recensioni sui giornali giusti o sulle televisioni e/o nelle radio che ascoltavano tutti nelle ore di punta. Indie non sopportava questa cosa. Non riusciva ad accettare che la gente subiva la musica della radio e la accettava come buona solo perché la radio la trasmetteva in continuazione. La gente non pensava che se la radio manda un brano per giorni non vuol dire che il brano sia bello. La radio mando un brano per diversi giorni perché qualcuno ha pagato affinchè lo faccia. Quella non è musica per Indie, quello è prodotto, è posizionamento di un prodotto sul mercato. Mandare un pezzo centinaia di volte alla radio è come pubblicizzare il nuovo assorbente della qualcosa-pocket mentre la signorina si lancia con il paracadute dall’aereo di turno. Indie capiva che non c’era misura nella promozione della musica, si mischiava la musica con gli omogeneizzati, con i prodotti elettronici. La prova lampante di questo era davanti agli occhi di tutti. Bastava entrare nelle grandi catene di dischi. Cd, dvd, gioci per la playstation, poster, libri, ricchi premi e caramelle e cioccolata tutto insieme, in un unico puotpouri di nullità ed appiattimento.

La sua etichetta sarebbe stata senza dubbio l’etichetta discografica più ricercata artisticamente, ma senza artisti probabilmente se non lui e qualche altro pazzo. I musicisti ed Indie lo sapeva bene, volevano principalmente notorietà e soldi e difficilmente riuscivano a scendere ai compromessi fin troppo stretti della condivisione dell’arte. Il motivo per cui le major ed anche le etichette indipendenti avevano questo successo era perchè promettevano soldi e successo. Le regole della serie a delle major erano esattamente le stesse della serie b delle etichette indipendenti con la piccola differenza che il giro di soldi era minore e quindi minore possibilità di visibilità successo fama soldi. Queste cose rendevano sempre un pò triste Indie. In realtà quando si fermava a pensare queste cose si rendeva conto che se non si soffermava sulla questione soldi il pensiero di passare alla Product lo tentava decisamente, poi invece ci ragionava anche un po’ e si rendeva conto di quale errore madornale stava per commettere. Era dura decidere così come era troppo dura resistere. Anche di questo avrebbe parlato quella sera. Chissà forse sarebbe stata l’occasione giusta per poter lanciare l’idea di formare quella etichetta artistica in maniera definitiva davanti alla maggior parte delle persone che voleva partecipassero. Si domandava come avrebbero preso l’argomento e come sarebbero rimasti all’idea della creazione di una etichetta indipendente non più gestita da un imprenditore bensì gestita da loro stessi, da tutti loro. Indie sapeva bene anche che troppe teste insieme non riuscirebbero a gestire nulla, ma era comunque fiducioso sullo spirito artistico della cosa. Se una cosa nasce dall’arte per l’arte, i soldi non servono a tenerla in piedi. Se una cosa nasce dall’arte per la fama ed il successo allora ha bisogno solo di soldi e non più di arte. Questa era la sua verità e questa era un’altra delle cose che avrebbe detto quella sera. “Se una cosa nasce dall’arte per l’arte, i soldi non servono a tenerla in piedi. Se una cosa nasce dall’arte per la fama ed il successo allora ha bisogno solo di soldi e non più di arte” questo pensiero gli era davvero piaciuto e cominciò a ripeterlo nella sua mente come un altro mantra. “Questo lo devo assolutamente dire” pensò.

Artisticamente era una parola piena di significato per Indie e voleva rispettarla, ma voleva anche essere lontano da tutta quella gente che ne faceva un abuso evidente. Odiava chi sosteneva la tesi che tutto fosse arte, senza dubbio, Indie pensava, tutto è espressione di qualcosa, ma tutto non è arte. C’era una categoria di snob pseudo intenditori che avevano generato in alcuni imbecilli che una cosa per essere bella deve essere complicata ad ogni costo, oppure al contrario che una cosa complicata è senza dubbio bella perchè si possono trovare molte interpretazioni. Per Indie erano stronzate. Anche su di una pietra trovata a mare o sulla spiaggia di possono costruire storie e quindi trovare interpretazioni. Forse il mare l’ha abbandonata lì sulla spiaggia per motivi sentimentali, o forse la pietra è lì perché c’era stato mal tempo o forse la pietra è lì a testimoniare con le sue curve ed i suoi colori, lo scorrere inesorabile del tempo. Mille interpretazioni su di una cosa che non ha movimento e con non ha creato nessuno se non il tempo stesso. Anche questo avrebbe detto quella sera.

La sua IndieFarm Records sarebbe stata lontana da tutto questo far finta. Le cose che sarebbero venute fuori senza un reale significato sarebbero state classificate come tali, mentre quelle davvero artistiche avrebbero palesato da sole il loro significato senza il minimo problema e senza dover intervenire con decorazioni a contorno. Le cose ricche di significato palesano il loro spessore senza bisogno di spiegazioni. Le cose ricche di significato sono e rappresentano il loro significato, sono assiomi, non hanno bisogno di dimostrazione.

Indie era e viveva tutto questo con amore e rassegnazione. Avrebbe voluto che il mondo intero rispettasse il prossimo. Nulla di più che una sincera e pura attenzione verso gli altri a partire dal modo di rapportarsi e di parlare. A partire dal fatto che non c’è bisogno di alzare la voce per farsi sentire, a finire al fatto che essere ascoltati è un diritto sacrosanto che non può assolutamente essere messo in secondo piano. Nella scala dei valori di Indie il rispetto e l’attenzione troneggiavano indisturbati. Forse per questo era stracolmo di amici e per questo riusciva a fare dei profili dei suoi amici così dettagliati. Riusciva a descrivere le persone che incrociavano il suo percorso con tanta precisione proprio perché li scrutava sempre un po’ attentamente fino a scavare nel loro intimo. Fino a raggiungere quella conoscenza che portava all’assenza delle parole. Le parole con gli amici veri diventavano inutili. Le parole non servono se conosci la persona che ti sta accanto, le parole servono per capirsi, non servono quando si è già “capiti” vicendevolmente.

[^]

Cap.22 – Sospiri di sollievo

“Sveglia Indie, sveglia” una voce arrivava al suo orecchio destro , ma Indie non riusciva a capire da dove. “Svegliati amico mio, le cose stanno cambiando”. Avvertiva questa voce e non sempre arrivava con la stessa frequenza, timbro od intensità. Gli arrivava e basta e per questo che spesso si girava velocemente di scatto per cercare di beccare la persona che gli faceva questo scherzo. Non erano le uniche parole che avvertiva, anzi a volte gli succedeva si avvertire sospiri, singhiozzi di pianto e qualche “ti voglio bene” lanciato qui e la. Poi scomparivano nel nulla, nella terra del silenzio. Indie era stanco, ma pronto ad affrontare quella che sarebbe stata la sua serata. Era provato perchè le emozioni ti sfiancano. Era fisicamente colpito da tanta violenza emotiva. Dove porta la musica indie lo sapeva bene. Quali sono le porte che riesce ad aprire un accordo di mi minore nona Indie lo sa bene. Se poi la tensione si sposta verso un re settima con la terza al basso e quindi fa diesis, le cose si mettono ancor meglio e non c’è sol maggiore migliore di quello che stai pensando che dovrà necessariamente arrivare. Alle sue orecchie gli accordi e le note arrivavano anche esse come dei sospiri. In alternanza il “ti voglio bene” e “svegliati Indie, svegliati” venivano intersecati da “fa minore quinta bemolle”, “re minore settima diminuita”. Sospiri che alternavano parole ed accordi, voce e musica, tutto e sempre tutto insieme a formare una unica ed integrata verità. Lunga vita a “Mercoledì” pensava rivolgendosi alla sua chitarra preferita. “Lunga vita a te mia condottiera, lunga vita a tutti quelli che hanno permesso questo e che mi hanno portato a scrivere musica ed a trasmettere quello che provo, lunga vita a chi guardandomi ha pensato: ‘adesso gli regalo una chitarra”, lunga vita a chi crede che questa cosa porti da qualche parte e quindi lunga vita a me, solo a me”. Si lunga vita a Indie pensava ed a tutti quelli come lui. Indie era consapevole che i sospiri l’avevano portato verso una scelta molto difficile su come condurre la sua vita. Sarebbe stato così semplice dedicarsi ad un’attività che porta soldo sicuro, sistemazione, e tranquillità economica. Sarebbe stato comodo affossare tutti i suoi sogni, tutte le sue speranze di un mondo migliore. Sarebbe stato comodo lasciare le sue note ed i suoi accordi in un cassetto e magari fare un concorso e cercare di prendere un posto nello stato. Sarebbe stato si difficile, ma comodo sbarazzarsi delle proprie emozioni e tenerle a bada con un “la musica e l’arte non ti danno da mangiare”. Senza dubbio pensava indie che razionalmente questo era il discorso da fare. Senza dubbio pensava Indie che questa era la morte del suo cervello della sua identità e di tutto quello che riusciva ora a vedere ed a vivere lontano dalle scrivanie piene di fogli inutili. Sarebbe stato comodo non dover pensare durante un accordo suonato sulla sua “Mercoledì” e non ci sarebbe stata nemmeno “Mercoledì”. Che comodità non avere una chitarra a cui dare un nome. Che piacere non avere musica che ti gira nel cervello, che meraviglia non dover avere l’emozione di salire sul palco, che cosa straordinaria non dover mostrare le proprie emozioni agli altri tramite l’arte. Che spettacolo starsene a casa a subire la televisione, che cosa meravigliosa poi essere e fare i presenzialisti davanti ai night club parlando male dello stato o dicendo banalità del tipo “si stava meglio quando si stava peggio” mentre magari si sorseggia un cocktail da 10 euro. Che fortuna appoggiare la testa sul cuscino la sera e non avere canzoni nel cervello, che meraviglia non dover cambiare le corde al proprio strumento, che gesti straordinari prevedono l’apposizione di un timbro su di una lettera. Che bella la vita senza l’arte. Vero? Una tragedia sarebbe pensava Indie, una tragedia senza fine. Uomini senza identità, tutti uguali come i bambini al macello nel video di “Another brick in the wall”. L’annullamento dell’identità priva di sospiri che ti sussurrino che direzione intraprendere. Senza nessuno che ti dica dove andare. Era così bello alla fine riuscire ad avere tutto questo. Il cervello sempre impegnato e vocine che ti indicano la strada da prendere per svoltare, per essere diversi dagli altri ed integrati perfettamente con il mondo, con la natura, con le espressioni più pure di tutto quello che ci circonda e non somigliare a nulla a niente di tutto ciò. Indipendenti dal mondo e completamente schiavi di esso, indipendenti dalla natura, ma pienamente integrati in essa. Questo era Indie e questo voleva essere. Un tutt’uno con la natura e con le voci che gli consigliavano cosa fare. Ogni sospiro era di sollievo, ogni sospiro era la traccia che c’è un modo per cambiare, era la prova, era la dimostrazione che si può tranquillamente uscire dal quotidiano, dallo “già visto”, dall’essere un prodotto, tutto questo gli dimostrava che c’era un’altra strada su cui potevi camminare e che nella lunga corsa, come diceva Robert Plant dei Led Zeppelin in “Stairway to heaven”, c’è sempre tempo per cambiare la strada su cui sei, ed anche Robert Plant nel live più famoso aggiunse un “fuori testo” : “I HOPE SO!”.

“And it makes me wonder” risuonò come un campanello nel suo cervello ancora una volta. Pensare era ed è ancora gratis. Attendere non lo è, gratis, pensava sempre Indie. “Attendere implica che qualcuno sta facendo qualcosa ed un altro sta aspettando di averla.” Anche di questo avrebbe parlato quella sera.

[^]

Cap.23 – Attese

Lunga l’attesa è sempre lunga. Un’attesa rende tutto inaccettabile, un’attesa rende il mondo cattivo. Aspettare non è naturale per chi è inquieto come Indie. Attendere che arrivi il 30 Novembre per potersi presentare alla Product e decidere di un contratto era una cosa innaturale che lo rendeva completamente pazzo. Lo faceva impazzire la sola idea di dover attendere un mezzo di locomozione per recarsi al posto, tipo un treno oppure un aereo, o perché no andarci in macchina e quindi attendere il benzinaio che ti fa carburante, attendere l’omino del casello dell’autostrada, si quello che non saluta mai nessuno e che non saluta mai nessuno, che ti dia il resto dei soldi che non trovi mai in quel frangente, attendere che la fila alla biglietteria della stazione diventi sempre più snella e quindi ti permetta di accedere allo sportello e quindi ti permetta di attendere il bigliettaio ed i tuoi biglietti, attendere il treno al binario, attendere che riparta, oppure attendere che la fila del check in in aeroporto diventi veloce e tu possa presentare i tuoi documenti ed i tuoi bagagli alla signorina e quindi poi attendere che si apra l’accesso al gate, attendere quindi che si apra il gate e ti porti sull’aereo ed attendere quindi che l’aereo parta e quindi attendere che atterri e che qualcuno apra il portellone e quindi attendere un taxi e che quindi un tassista ti porti a destinazione e quindi attendere un portinaio che ti indichi la strada oppure un omino alla reception che ti dica di attendere che la stanza sia pronta e quindi attendere l’ascensore che ti porti al piano e quindi attendere che una volta appoggiata la testa sul cuscino i pensieri escano e lascino posto al sonno, atteso. Attendere è innaturale, Indie non sapeva attendere, Indie era inquieto come un temporale che non si fa attendere. La pazienza non è degli inquieti, la pazienza sa attendere, la pazienza non era di Indie. Lunga l’attesa di chi deve salire sul palco e presentarsi al mondo intero come il vangelo. Lunga è l’attesa di chi imbraccia la chitarra ed inserisce il jack e lunga è l’attesa di chi cerca il plettro nel taschino del jeans sperando di non averlo dimenticato ed è lunga l’attesa di chi aspetta che le luci si spengano affinché lo spettacolo inizi. Lunga è l’attesa di chi deve ricevere il battito del click ed è lunga l’attesa del momento in cui inizia il brano. Lunga è l’attesa di chi deve suonare dopo gli altri e quindi aspetta la sua battuta, la sua misura in battere o levare che sia. E’ lunga l’attesa di chi deve salutare prima di suonare, di chi deve dire chi è prima di mettere mano allo strumento, perchè nessuno sa chi è. Lunga è l’attesa di chi una volta finito il brano aspetta che il pubblico mostri il proprio apprezzamento oppure il proprio disappunto su quello che ha ascoltato, avvertito, sentito o sopportato. Lunga è l’attesa di chi una volta finito lo spettacolo dice:”grazie buonanotte” e aspetta speranzoso che qualcuno dica:”non te ne andare, oppure suonate ancora” invece di ricevere un “meno male che te ne vai”. Lunga resta l’attesa di quella serata speciale nel circolo e quindi nella città. Lunga è l’attesa di tutti i profili di Indie. Sarà lunga aspettare anche che finiscano i Pocket perché è lunga l’attesa per ogni gesto di Libera e dei suoi angeli colleghi nerd. Lunga è l’attesa ed Indie anche di questo avrebbe parlato quella sera. Lunga era l’attesa di vedere tutti gli amici ed i profili che aveva individuato. Lunga era l’attesa di vedere davanti a se Fly, lunghissima. Lunghissima era l’attesa di vedere anche Seah almeno un’altra volta nella sua vita, lunghissima quasi eterna. Lunghissima l’attesa di incontrare il Do maggiore ed il Sol maggiore, ma forse erano accordi che non facevano per lui, eterno esecutore di accordi di settima, che appunto creavano tensione e quindi attesa. Lunga l’attesa di chi dopo fa maggiore e sol maggiore cade in inganno su la minore e non su do maggiore. Lunga è l’attesa di chi ama davvero. Lunga è l’attesa di vederci chiaro, sempre e comunque in ogni situazione. Lunga è l’attesa di chi deve aspettare dei risultati. Lunga è l’attesa di chi attende una parola di conforto, lunghissima è l’attesa di chi ritiene che sia tutto finito e spera che non accada nuovamente. Lunga è la vita e lunghissima è la morte, lunga è l’attesa di chi vive e lunga è l’attesa di chi muore. “Attendi qualcuno?” chiese Libera avvicinandosi al suo orecchio. “Attendo da una vita intera mia cara, e tu sai sempre cosa chiedere al momento giusto, in bocca al lupo per stasera Libera, sarò tutto orecchie solo per te.” “Crepi il lupo” rispose Libera col suo tocco di nostalgia negli occhi mentre non lo guardava. Libera avrebbe suonato come non mai quella notte. Aveva istruito e coinvolto i suoi Pocket of clouds in questo festival come se fosse la cosa più importante per lei. Ci teneva ad essere all’altezza della situazione e soprattutto voleva essere da lancio per la serata, da cornice perfetta per il suo Indie. Voleva necessariamente fare da tappeto ad una serata che probabilmente l’avrebbe comunque vista da protagonista. Voleva essere perfetta per il suo Indie ed il fatto di pensarlo “suo” la rendeva terribilmente triste ancor di più. Il momento cruciale si avvicinava e Libera era in agitazione, inquieta. Sentiva che mancava qualcosa a tutto quell’attendere. Si girò e non vide Indie nelle sue vicinanze. “Sarò costretta a trovarlo di nuovo, se lui lo vorrà” pensò e abbassò gli occhi della ricerca. Lunga è l’attesa di chi cerca qualcuno nella folla, lunga è l’attesa di chi sa dove sia una persona e non può sempre essere accanto a lei. Lunga è l’attesa di chi torna e lunga è l’attesa di chi aspetta qualcuno che torni. Lunga è l’attesa dell’inizio di questa serata memorabile. Alta e meravigliosa è Libera che si appresta a salire sul palco per unire le terre del silenzio, della tenacia e dell’amore eterno.

[^]

Cap.24 – Restare o andare via

Qual è il mio mondo, questo o quello? Dove mi dovrò posizionare? Sono Indie e questo è già un problema. Sono di Fly o sono di Libera? Sono solo? Non potrei non scegliere, è la mia natura che è così. Forse è solo la mia natura in questo momento. Forse non ero così, chi sarò poi? Chi ero prima di adesso, cosa è successo, cosa cavolo è successo? Vivevo bene, oppure vivevo ansie angoscie e tenebre? Mi sembra di star bene solo nelle terre del silenzio e quando e vengo fuori sono costretto ad affrontare un mondo rumoroso fatto di noie, rotture di scatole, improvisazioni sbagliate, cose da fare, cose da pagare, cose da inventare, cose da costruire e poi rompere, cose da prendere e consumare, cose insomma. Sono Indie e questo è già un problema. Fuori dalle mie terre del silenzio vivo l’ansia e l’angoscia del troppo rumore, del fastidio auricolare degli acufeni della disperazione della società, dell’errore di fondo del mercato e del consumismo. Vivo fuori dalle terre del silenzio e mi aggrappo al mio sogno ricorrente speranzoso di vedere un cambiamento in tutto il mondo compreso me. Vivo nelle mie terre del silenzio e non ho il coraggio di aprire una porta, la porta della pazzia, ma se non fosse la pazzia dove porta quell’uscio? Se fosse il cambiamento? Se aprissi quella porta e trovassi dall’altro lato la mia quinta stagione tanto cercata? Chissà, dovrei ricordarmi anche come ci si arriva, o semplicemente dovrei avere la forza, la voglia e l’orgoglio di andarci di proposito da sveglio. Qual è il mio posto? Dove dove dovrei essere, dove dovrei alloggiare? E’ questo il mio posto, respiri, urgenze, ansie, corde, mani abbracci, colori e la loro somma. Dovrei essere su di un cuscino e guardare questa luce azzurra che mi acceca, ma mi rasserena? Oppure dovrei essere altrove nel grigiore della vita quotidiana? Negli uffici a fare la fila alle poste, in banca, al mercato, nei negozi, nei centri commerciali, nei colori accecanti del circo e tra i poveri animali sfruttati per far sorridere qualche bambino di troppo? Dovrei fare figli? Dovrei riprodurmi per dare al mondo altri esseri infelici? O per dare altri soldi alla comunità? Dovrei sposarmi? Per dare soldi alla chiesa e per far si che qualcuno dica: “si, tu sei qualcuno”. Dovrei pagare notai per comprare case e per farmi dire che sono io? Si tu sei tu, sei Indie, dammi tremila euro. Dovrei continuare a farmi visitare da esseri che ti chiedono l’anima e quindi poichè non sempre riescono ad ammazzarti con le loro cure, di sicuro ti ammazzano economnicamente? Dovrei restare su questa terra per far contento chi mi ci ha messo sopra e mi ha legato ad una sedia oppure ad un letto? Perché dovrei farlo, ditemelo voi? La terra del silenzio è tutto quello che una persona può desiderare, c’è la natura, ci sono gli animali che non fanno rumore, ci sono gli alberi, ah, gli alberi che meraviglia, come sanno stare zitti gli alberi. Nessuno è in grado di stare zitto più di un albero. Ti viene voglia di abbracciarli e di portarteli a casa e coccolarli come figli, ma ti rendi conto che anche quella è violenza. Lasciamo gli alberi dove sono, sapete una volta li tolsero dal cortile di casa mia. Una cosa inaudita e violenta, e fu fatto per dare possibilità a delle auto di parcheggiare. Noi le sfreggiammo tutte per dispetto. Dovrei continuare a giocare in questo mondo taglia alberi? Scassa boschi e scassa natura? Dovrei stare a questo gioco? Dovrei permettere a tutti di trattarci come esseri inermi e senza cervello? No signori miei, non è giusto, Indie è diverso e voi lo sapete, No signori miei il mio No è forte ed alto, è un No con la lettera maiuscola, è un No per indicare No, Mai! Signori miei svegliatevi, non sono io che devo farlo. Signori miei saltate sul vostro posto e salite sulle vostre sedie. Guardate le cose da un altro punto di vista. Non guardate il mondo da come vi hanno detto di guardarlo, quella visione è finta, è stata creata apposta per voi. Non guardate il mondo dalla vostra posizione eretta, girate la testa! Ascoltate il mondo, ascoltate l’allegra sinfonia improvvisata del bordello che abbiamo creato e ditemi sinceramente se volete continuare a farne parte, ditemelo ora, o voi che siete come me gli artefici di questo casino incommensurabile. Sì, signori miei, guardate bene, questo è un cazzo di casino che abbiamo combinato. Guardate lì fuori per strada, la gente è capace di ammazzarsi per prendere quell’unico posto macchina che è di fianco alla banca dove bisogna andare per forza a chiedere elemosina. Dove bisogna per forza andare a ritirare i soldi che gli abbiamo regalato. Ci siam fatti fregare, gli abbiamo dato i nostri soldi e non possiamo riprenderceli, perché non ce li hanno più. Lo abbiamo fatto pensando che un giorno saremmo stati ricchi ed ora non ce ne è più per nessuno. Girate la testa ora e guardate i bar dall’altro lato: Macchinette ruba fortuna, la gente ci butta gli stipendi perché qualcuno ha detto che si possono fare soldi in un attimo premendo un pulsante ed aspettando che escano tre cazzate uguali sulla slot. La gente ha buttato fortune e famiglie in quelle macchinette infernali. E’ qui che devo stare? E’ qui che voglio stare? Guardate bene,la macchinetta anche del caffè, lo paghiamo 1 euro circa, gli diamo novecento volte il valore di una tazzina e poi magari sorridenti diciamo anche no non ci dia lo scontrino non c’è bisogno. C’è bisogno eccome signori miei, c’è bisogno eccome. Ci siamo fatti fregare ed è qui che vogliamo stare?? Non ci posso credere signori miei, ma voi con le vostre facce stralunate ed attonite, mi avete fatto venire voglia di andare, si, andare, uscire da questo mondo falso e pieno di nulla. Passiamo dal nulla al niente come se nulla fosse ed oscilliamo dalla destra alla sinistra del nostro personalissimo parlamento senza ritegno. E’ qui che volete stare? Indie si chiama Indie ed è già un problema per lui, Indie non ci vuole stare qui? Avete capito?

Forse non lo aveva capito bene neanche lui, ma le cose stavano prendendo pian piano una strada, stavano diventando sempre più chiare e come la luce di una lampadina economica ed ecologica, l’intensità aumentava man mano che parlava con se stesso e con la sua platea immaginaria. Indie era quasi pronto alla decisione, quasi pronto a quello che sarebbe stato il suo spettacolo ed il suo domani a meno che le due cose non fossero state esattamente la stessa cosa. Diede uno sguardo al circolo e lo vide ancora una volta cambiato. In particolare si accorse che le luci che lo caratterizzavano prima erano diventate più azzurre. Stranamente Benny non gli aveva detto niente in merito. Notò questo cambio di intensità e se ne rammaricò ancora una volta. Non voleva cambiamenti repentini in quel posto che era quasi la sua casa. Avvertì come una scossa, chiuse gli occhi ed un sospiro gli disse: “svegliati Indie, svegliati”. Il dubbio come sempre era se restare oppure andare via.

[^]

Cap.25 – Rain

Non si svegliava mai tardi al mattino, Indie era uno che amava alzarsi dal letto con le luci dell’alba. Adorava i profumi del mattino, il sapore del caffè e tutto quello che dava segni di risveglio. Le cose e le persone che riescono a riposarsi poi affrontano meglio tutte le cose. La pioggia, quella sì, gli mancava un pò al mattino. Gli piacevano quelle mattine in cui ti svegli e senti che fuori piove. Quando pioveva al mattino era solito alzarsi ed aprire la finestra per poter sentire l’odore della pioggia, il rumore delle foglie colpite da quel tichettio indescrivibile che come sempre era la base ritmica per qualche altra composizione mentale. tic tic tic faceva la pioggia e la sua mente partoriva note in risposta. tic tic faceva la pioggia e Indie adorava il suo rumore. La pioggia era un’altra cosa di cui forse avrebbe parlato quella sera. Si perchè la pioggia in qualche modo, costringe alcuni a ripararsi ed altri ad affrontarla con coraggio. Se piove non sai se ripararti o dire “ma cosa importa”. Indie amava camminare e cantare sotto la pioggia come in quella vecchia canzone. Adorava la pioggia anche perchè amava follemente i temporali. I temporali lo rendevano ancor più felice in quanto la natura si esprimeva al meglio. I concerti della natura erano fondamentali per la vita di Indie, erano la prova che il mondo era tuttuno con lui e lui una sola cosa con il mondo. Quella sera cominciò a piovere ed Indie decise che era il caso di partecipare. Uscì di corsa dal circolo e cominciò a camminare sotto le gocce gelide di Novembre. Cominciò ad avvertire l’acqua sul suo viso e si sentì un po’ meglio e questo bagnarsi cominciò a lavare via anche i brutti pensieri della giornata, ma anche quelli belli. Cominciò ad aumentare il passo e fece un giro veloce dei palazzi della zona orientale per ritornare poi davanti alla porta del circolo. Aveva tracciato un cercio immaginario quasi ad indicare il territorio in cui sentirsi sicuro. Aveva fatto un cerchio per contenere il circolo, per proteggerlo chissà da quello che avrebbe detto, oppure aveva costruito una sorta di protezione per le note che quella sera sarebbero uscite. La instabilità mentale di Indie cominciò a peggiorare ma lui si sentiva meglio. Era forse l’ansia che lo attanagliava oppure semplicemente la smania di cominciare qualcosa di grande. Non vedeva l’ora che tutto partisse verso una direzione, una qualunque, ma era importante che partisse. Il tempo dell’attesa era sempre lì a bloccare il mondo ed a costringerlo a curvarsi con esso. Il tempo era Indie e Indie era il tempo. Il tempo scorreva lentamente per lui e l’attesa peggiorava. Cominciò a camminare avanti ed indietro davanti alla porta del circolo e non entrava. Il tempo non glielo permetteva. Non era a tempo. Quell’apertura di porta non era in battere con il resto dell’universo e Indie non voleva andare fuori tempo. Quindi su e giù quasi a creare un solco davanti alla porta. Su e giù Indie ed il circolo diventava il suo acquario che questa volta vedeva da fuori. Il circolo aveva adesso dei vetri altissimi ed era pieno d’acqua. Fuori pioveva e dentro le persone galleggiavano. Indie appoggiava le mani al vetro e non trovava più la porta. Le persone erano intrappolate in questo gigantesco mare e lui non poteva entrare per salvare nessuno o per partecipare semplicemente a quella sventura. Non riconosceva nessuno dei suoi profili, ma era sicuro che fossero lì dentro. L’ansia saliva sempre di più quando una voce gli sussurrò “vuoi entrare?” e la porta del circolo si aprì normale come sempre. Nessun acquario, nessun pericolo. “Entra che sei tutto bagnato” disse Benny, “come minchia devo fare con te? un momento prima di tutto scompari, cammini sotto la pioggia come un pazzo scatenato, ti bagni tutto e poi vorresti salire sul palco? Come vuoi essere finito fulminato dalla corrente o vuoi che ti ammazzi io direttamente adesso con un cazzotto in testa? Coglione, vatti ad asciugare che così non ti faccio salire.” Indie accettò la cazziata e si incamminò verso i nuovissimi bagni del circolo a cercare di asciugarsi alla meno peggio. Inzuppato come era si guardò allo specchio:”piacere Indie” disse sarcastico all’Indie che lo guardava dall’altra parte. “Sai quasi non mi riconosco più, sono Indie e non so chi sono, sono indie e non so dove sto andando, sono indie e non mi riconosco, ti prego aiutami tu, che solo sai chi sono.” Si passò una asciugamani tra i capelli, e sorrise al pensiero che ci fosse qualcuno che lo stava facendo per lui. Il pensiero lo trasportò verso i tempi in cui era piccolo e quando si bagnava come un pulcino c’era zia Giulia che lo asciugava. C’era sempre zia Giulia che lo strofinava come un bicchiere appena lavato e lo lasciava lì spettinato, rosso come una mela e stupidamente sorridente come solo un bambino sa fare. “Che mi rido da solo” pensò, “ma alla fine mi piace” ripensò. Un indie asciutto usciva dal bagno, rosso come una mela e cretino come un bambino. La sua voglia, il suo desiderio era senza dubbio di rituffarsi in quella pioggia che si faceva più incalzante, almeno per un altro pò, ma lo preoccupava il fatto che una volta uscito di lì avrebbe ancora rivisto quelle scene del circolo intrappolato in un mondo fuori tempo, in un mondo in levare. Il mondo in levare è proprio quel posto infame in cui tutti fanno una cosa un istante prima di te. Tutti in battere e tu esattamente un istante dopo colpisci il tuo battito in levare.

Prese un altro rum e Marco gli disse:”non starai esagerando I?” e forse si lo stava facendo e forse lo stava facendo apposta. Conosceva bene i suoi limiti con l’alcool, ma a volte gli piaceva avvertire quello stato di allegrezza indotta. Lo spettacolo stava per iniziare finalmente e la pioggia continuava dentro e fuori del circolo, dentro e fuori Indie, come per lavare tutto quello che c’era in modo da prepararlo all’evento. Luci basse e vite sospese, luci basse ed ansia a mille, luci basse e Libera sale sul palco. Luci basse e Indie corre per essere in prima fila, ma si ferma nel mezzo della gente. Indie guarda da sotto e Libera sale sopra tutti ed è bella da far mancare il fiato. Libera è lì davanti a tutti ed i Pocket full of clouds sono da contorno. Il pacco pieno di nuvole sta per essere liberato e queste ultime potranno salire sul circolo e far piovere le note come sempre avevano sognato di fare. Le note improgionate nelle nuvole dei Pocket erano pronte a colpire il circolo e devastarlo con tutta la loro forza, con tutta la loro eleganza di Libera e del suo essere così avvolgente. Il silenzio prima dell’inizio era un attimo lunghissimo di attesa che rende tutto più magico. Luci basse e cala il silenzio in sala. Luci basse, il fall festival sta per finire, luci basse e quindi respiro, urgenza, cervello, mano, corda, aria, respiro, e nuovamente respiro, urgenza, cervello, mano, corda, aria, respiro. Il mantra si ripeteva prima di proferire parola e note. L’aria era densa di attesa, densa delle terre magnifiche del silenzio, densa delle terre straordinarie dell’amore, densa della quinta stagione. L’aria era densa di pioggia, dentro e fuori, tutto poteva riunirsi in un’unica entità bellissima e colorata. TUtto l’autunno di quella situazione stava per rivelarsi agli occhi ed alle orecchie di tutti con un turbinio di note cadenti dalle nuvole dei pocket. Libera alzò il braccio leggermente ed il plettro della chitarra brillò nell’aria. Lo abbassò lentamente per poter colpire il mi basso della chitarra per dare così vita a quella che sarebbe stata l’ultima serata del fall, l’ultima serata dei pocket, l’ultima serata di Indie, l’ultima serata del circolo e quindi della città. L’incipit della vera ed ultima serata stava per essere partorito da una tasca piena di nuvole ed Indie lo sapeva.

Indie saltò sul palco e decise di presentare il concerto, fece un balzo rubò il microfono e Libera rimase pietrificata con il suo braccio in alto.

[^]

Cap.26 – Il racconto

“Che meraviglia quando qualcuno si siede accanto a te e ti racconta qualcosa. Questo qualcuno fa più di una cosa buona in contemporanea. Primo si siede accanto a te e questo già è meraviglioso, poi magari sta vicino vicino a te e questo è ancor più bello. Ti permette di sentire il suo odore, il suo sapore e d il suo calore. Poi ti rivolge la parola e questa cosa è pur sempre una cosa miracolosa. Poi magari riesce anche a guardarti negli occhi e questo comporta innumerevoli altri scambi di energia profonda. Che meraviglia quando uno ti racconta una cosa brutta o bella che sia. L’importante è che te la racconti. Non importa nemmeno il modo in cui lo fa. E’ molto bello anche se semplicemente la legge da un libro questa cosa oppure va bene anche se l’ha inventa di sana pianta. Se qualcuno improvvisa una storia per te è meraviglioso, è splendido. Ti mostra il suo più intimo ed attuale stato d’animo. Si avvicina, si siede al tuo fianco, magari ti accarezza il viso, poi ti guarda negli occhi e ti racconta una storia inventata. E’ così poetico e romantico. Anche se fosse una bugia sarebbe così. Sarebbe una bugia romanticissima, una bugia piena di attualità e calore. Se qualcuno ti si avvicina vuol dire che ha bisogno di un contatto con te di qualunque tipo. Se qualcuno ti avvicina e ti racconta una storia vuol dire che la vuol raccontare proprio a te. E’ quel rapporto momentaneo che si forma e forse si distrugge dopo che la storia è arrivata alla fine, ma è pur sempre un racconto che resterà nella tua memoria, nella tua storia. E’ parte del racconto più grande di tutti che è quello della tua vita. Se qualcuno ti si avvicina e ti racconta la Tua storia, a quel punto il rapporto è di coesione, è indissolubile nemmeno dopo che la morte ti ha portato via. Se qualcuno siede accanto a te e ti racconta la Sua storia forse ha solo voglia di raccontarsi, ma lo sta facendo con te. Se qualcuno ti si avvicina e racconta la Vostra storia forse ha bisogno di ripercorrerla perché ha di sicuro avuto dei momenti di pura gioia e momenti di pura follia. E’ meraviglioso raccontare come è meraviglioso raccontarsi. Sono Indie e mi siedo accanto alla mia mente per raccontare la Nostra storia. Una storia fatta di mondi sempre più colorati e complessi, sempre più pieni di realtà vere ed inventate, sempre più pieni di persone vere e persone inventate e persone false, che non è lo stesso. La nostra è una storia di entità in contrasto che generano energia. La differenza genera energia non l’eguaglianza. La termocoppia genera energia e non due cavi freddi ed uguali. Io e la mia mente siamo uno l’opposto dell’altra ed a volte ci scambiamo per poter entrare uno nei panni dell’altra. Il nostro è uno scambio alla pari, ma non è mai stata e non sarà forse mai una fusione. La mia mente mi comanda ed io comando la mia mente. Sono Indie e la mia mente non lo è. Sono Indie e vi racconto la nostra storia, la storia di me e la mia mente. E’ una storia che somiglia ad ognuno di voi. E’ la storia che racconta di voi quando fate le cose che fate. E’ la storia di voi che urlate da soli in macchina, che sgridate i vostri figli, che urlate contro i vostri partner e dopo ve ne pentite, è la storia di voi che correte felici nel parco ed a volte sconsolati e distrutti vi sedete sul prato. E’ la storia di voi delusi perché la persona che vi ama vi ha raccontato una bugia, è la storia di voi che siete al settimo cielo perché la persona che amate vi ama alla follia più di voi, è la storia di voi che avete capito cosa è la terra del silenzio e la rispettate, è la storia di voi che avete capito cosa sia la terra dell’amore e l’amate con tutto l’amore possibile. Questa è la storia di voi che fate la spesa, di voi che accompagnate qualcuno dal medico, di voi che pagate lo scotto di una giornata di lavoro, di voi che sognate di fare il concerto della vostra vita. E’ la storia di voi che ogni mattina vi alzate dal punto A e vi recate nel punto B. E’ a storia di voi che un bel mattino vi siete alzati e siete andati nel punto C e non più nel punto B perché vi aveva stancato. E’ la storia di chi picchia il prossimo e di chi invece lo rispetta. E’ la storia di chi urla fuori dalla finestra od al telefono, è la storia di chi piange per la morte e ride per la vita, ed è la storia di chi ride per la morte e piange per questa vita. E’ questa la storia di chi scrive una storia, è questa la storia di chi scrive La storia. Sono indie e ve la racconto come se fosse la mia e la vostra, sono indie e questo è sempre stato il problema della Nostra storia. Come è meraviglioso quando uno si siede accanto a te e ti racconta una verità, fatta di una storia e di tutte le storie che ha potuto vivere. Il racconto di ogni attimo che passa è la meraviglia di averlo vissuto. Se lo racconti lo rivivi, se lo modifichi lo vivi in un altro modo, se non lo vivi lo immagini e se lo racconti quindi lo vivi davvero. Il racconto di quello che è la vita per capire la morte, di questo vi parlerei adesso, ma c’è Libera adesso ed i suoi Pocket full of clouds e ve li lascio ascoltare. fate sentire il vostro caloroso benvenuto e attenti a quello che ascolterete, vi riguarda di sicuro.” Indie presentò così la band e scese dal palco ad ascoltare quello che Libera gli avrebbe raccontato e che di sicuro lo riguardava molto, ma molto da vicino.

[^]

Cap.27 – Negli occhi

Libera non attese nemmeno che Indie scendesse dal palco per dare la spinta alla serata che tutti volevano. Il suo braccio che era rimasto pietrificato dall’ingresso volante di Indie sul palco fu nuovamente irrorato dal sangue e si lanciò verso le corde con un’energia ritrovata e sempre più nuova. Avvicinò le labbra al microfono e le parole di “Just for Tonight” diedero inizio a quella serata. La voce di Libera era stupenda, era libera appunto ed avrebbe incantato chiunque, del resto tutti prima o poi sarebbero rimasti incantati da lei. “I will take you to the places you didn’t know”… ti porterò nei posti che non conoscevi e ti strapperò il cuore. Lo toglierò a questa terra per portarti via verso una terra migliore. Questo diceva “just for tonight”. Del resto basta un solo istante e quindi una sola notte per strappare il cuore a qualcuno. I livelli del suono perfetti, non poteva essere altrimenti. Era tutto quello che ci voleva quella sera. La giusta atmosfera per farsi strappare il cuore e le radici da questa terra. Era quello che volevano tutti e forse era quello che Indie voleva più di tutti.

Farsi strappare dalla terra e lanciarsi in un mondo nuovo, del resto lo diceva ormai da un po’ di tempo e non stava facendo nulla per impedirlo in realtà. La voce di Libera sembrava parlasse a lui direttamente, e lui lo sapeva. Per tutta la durata del brano si guardarono intensamente e non mollarono la presa per un secondo. In quegli istanti Indie si sentiva confuso più che mai e voleva scappare, ma non riusciva a muovere un muscolo. La presa dei suoi occhi era forte, forse per questo non si era guardati mai per tanto tempo da quando si conoscevano. Quest’ultimo pensiero gli balenò per la mente e si disse:”la conosco da sempre e lei conosce me e tutti da sempre, come farà non si sa, ma è proprio così”. La presa era tale da bloccargli il cuore che sembrava non battesse più. “I will take you, I will take youu out of the earth, I will take your, I will take yooour heart out of this earth” e gli sembrava davvero che il cuore fuoriuscisse dalla scatola toracica per andare verso di lei pronta a prenderlo al volo e farlo volare via verso altri mondi. I suoi occhi erano capaci di immobilizzarlo e di fatto Indie lo era. I suoi occhi erano profondi ed incolore. I suoi occhi mostravano ad ogni persona scene della propria vita. Libera ti fissava e tu non potevi più nulla. Indie era l’unico dei presenti che aveva avuto il privilegio anche di abbracciarla. Libera non si donava a nessuno e tutti dovevano donarsi a lei. “Negli occhi” pensava Indie “non devo assolutamente guardarla negli occhi”, ma nessun muscolo era in grado di impedirglielo. “A better place, for you, a better place for me and you, a place that cannot be found on this earth, a place that will host your heart” Si un posto che potrà ospitare il tuo cuore Indie, il tuo cuore. Una progressione di accordi accompagnava il brano verso un ritornello molto strano ed accattivante, distopico e quasi ironico. “not me, not me, not me, but you but you but you, just for tonight, a single night, hust for tooonight, a single bloody night”. Non me, ma te solo per stanotte, una singola notte una singola sanguinosa notte. Libera parlava direttamente al cuore di tutti ed alla mente di Indie senza passare da strade secondarie. Riusciva a penetrare ogni singolo ostacolo come una legge inviolabile, come un diritto predominante su tutte le attività, come una cosa che per forza deve accadere. Non conosceva, ma, forse o preghiere, andava diritta verso il dunque e lo otteneva. Il finale del brano fu come una liberazione per Indie in quanto Libera si volse verso la band per un istante e riuscì a divincolarsi dallo sguardo, dalla sua catena fortissima che lo inchiodava al pavimento del circolo. Decise di voltarsi e guardare altrove e cominciò ad allontanarsi da tutta quella sudditanza emotiva. L’ultima volta in studio era in cuffia e la telefonata della Product l’aveva salvato nel farlo impazzire di rabbia ed indecisione, ma l’aveva salvato da quella sensazione assurda di immobilità incontrollabile. Era quella sensazione che si avverte mentre si sogna, e si ha il fortissimo desiderio di svegliarsi e non ci si riesce se non a fatica e con grande sforzo. Si allontanò incontrando gli sguardi dei presenti che erano come invasati e colpiti a morte da quella esperienza mistica. Cercò di scuotere qualcuno, ma nulla, sembrava che il tempo si fosse fermato. Allora scappò fuori barcollando e cercò di capire che cosa stava succedendo, ma come sempre quella pausa del tempo era solo nella sua mente. Il tempo si fermava, ma solo per lui. La voce di Benny lo risvegliò :”dove cazzo vai? lo sai che fra poco tocca a te nuovamente? comunque sei pazzo, ma hai fatto una presentazione che rimarrà alla storia, ho registrato tutto, poi un giorno ti farò sentire.” Indie odiava riascoltarsi, odiava riascoltare la sua voce registrata, gli sembrava diversa troppo da quella che lui sentiva originale dentro di se mentre parlava. “Si Benny, penso che la riascolterò un giorno” mentì spudoratamente. Il tempo aveva ripreso il suo corso normale e come quasi sempre accadeva era una voce amica a riprenderlo, oppure uno squillo del telefono a risvegliarlo, come quello che annunciava la telefonata di Fly. “Sto venendo lì, devo farlo, e devo fare qualcosa.” “Sei impazzita, un momento, sai che mi fa piacere, ma sai che cosa può provocare una cosa del genere?” e lei:”veramente lo so ed è per questo che devo assolutamente venire lì. Oggi è un giorno troppo importante per te e per me e per Libera stessa, non posso mancare, verrò e tu non discutere, tanto non puoi impedirmelo” e chiuse la conversazione. Indie passò dal preoccupato al terrorizzato in pochi secondi. Non riusciva ad immaginare cosa potesse generare e cosa potesse signifare per lui e per i presenti avere Fly e Libera insieme nello stesso posto ed allo stesso tempo. Senza dubbio non presagiva nulla di buono, ma come ogni esperienza da affrontare quella gli sembrava una sfida e le sfide Indie le combatteva, Indie affrontava ogni sfida che il tempo gli proponesse, anche se glielo faceva al telefono. Questa sua consapevolezza lo recuperò nuovamente e quindi rientrò in sala più forte di prima attento a non farsi sorprendere dagli occhi. “In your eyes, I will tell you the thruth, in your eyes I will kill you” cantava Libera e Indie faceva fatica a non guardare il palco. Era magnetismo puro, la sua voce, il contorno, la black atmosfera che si era creata in un misto gotico e new age da spavento. “Look for me, see me, watch meee, and.. look for me, see me, watch mee, in my eyes, in my eyes” ed il muro di suoni delle chitarre sfondava le porte del circolo e della città con una potenza inaudita. Libera stava distruggendo il campo di battaglia soltanto con la forza dei suoi occhi stupendi. “Look for me, see me, watch mee, and I will kill you” risuonava il brano che volgeva al termine e con esso le forze di chi ascoltava.

Libera lasciò il palco e la platea devastati. La potenza del suo sound fece spazio nella mente e nel fisico degli spettatori. Era arrivato il momento di Indie e del suo ritorno sul palco. La sua musica ed il suo discorso atteso. Era giunto il momento che tutti aspettavano e Indie non si fece attendere. Saltò sul palco un istante dopo che i Pocket prendessero le loro cose e l’onda di applausi. Benny preparò il palco. Una sedia al centro ed un microfono di fronte poggiato sull’asta. Mercoledì appoggiata sul reggi chitarra col jack verde attaccato. C’erano tutte le condizioni per dar vita alla serata più importante della sua vita: energia, tensione, Libera, Fly in arrivo, Mercoledì, un discorso da fare all’impronta, della musica da suonare all’impronta, degli occhi da non guardare ed una platea eccitata. Niente di più e niente di meno che la serie di caratteristiche necessarie ad una grande ed indimenticabile performance dal vivo. Indie live, dal vivo ed indipendente in viaggio verso una terra da scoprire dentro e fuori di se. In viaggio ed all’impronta, in cammino verso una sinfonia improvvisata. La sinfonia improvvisata di Indie, La sinfonia improvvisata del circolo, la sinfonia improvvisata del mondo.

[^]

Cap.28 – All’impronta

“Il concetto dell’improvvisazione è quello che andrebbe studiato per capire dove stiamo andando a finire. Una goccia di pioggia nel mare od il vento che muove una foglia rappresentano il gesto della natura che rende la vita complessa e soprattutto indefinita ed improvvisata. La goccia cade in un punto della terra e muove delle molecole delle piccole altre gocce che a loro volta cadono nei loro mondi infinetesimali e spostano, come in un frattale, miliardi di altre molecole che riproducono la stessa identica cosa improvvisata. Provare a dare un ordine a tutto questo, trovare l’algoritmo, la serie di passi che descrive e definisce tutto questo significa avvicinarsi a Dio ammesso che ce ne sia uno a governare. Provare minimamente a pensare che ci sia una legge che muove queste cose e descriva esattamente le posizioni nel tempo e nello spazio di ogni singola molecola è pazzesco ed impressionante. Colpire una corda per far risuonare una cassa armonica di legno genera miliardi e miliardi di nanomovimenti nello spazio e nel tempo. Descrivere questo, descrivere le leggi che regolano la propagazione delle onde sonore significa sopravvalutarsi. Si esistono delle formule che si avvicinano con una certa tolleranza a quello che ha la presunzione di rappresentare un’onda sonora, ma la verità è che non si può assolutamente descrivere cosa succede davvero quando un’onda sonora ti trapassa e tutte le particelle, tutte le nanoforme e tutti gli armonici di quell’onda si aggrappano alle molecole, agli atomi, agli elettroni, ai tessuti del tuo corpo. Dove sono questi suoni, dove si possono trovare, come si possono rappresentare. E’ impossibile come è impossibile imprigionare il vento in una scatola. E’ impossibile come dire al mare di star fermo. Il suono ti trapassa, ma parte di esso resta con te, forse per sempre. E forse quella parte che resta con te che rappresenta la Musica, quella con la M maiuscola e non quella che tenta ogni giorno di inscatolare il vento. Quelle particelle parlano tra loro, comunicano anche a grandi distanze ed una volta sprigionate dalla vibrazione di una corda non fanno altro che cercare di aggrapparsi ad ogni singola cellula che incontrano per strada e lo fanno solo ed esclusivamente per essere ricordate. Hanno paura di essere dimenticate e quindi si aggrappano, si attaccano con tutta la nanoforza che hanno affinchè noi tutti, il mondo, la natura, gli alberi, il mare, il cielo possiamo ricordarle per sempre. Quelle che vanno via quelle che vengono dimenticate restano nella terra del silenzio. Quelle che restano fanno parte e faranno parte di noi, per sempre, forse. Questo è quello che accade se una sola nota viene fatta viaggiare nell’aria, ma immaginate quando queste note diventano due a formare un intervallo. Per quanto sia distante o vicino questo intervallo rappresenta nell’immaginario comune un fascio di due onde, che in realtà sono molte ma molte di più. Che siano onde dissonanti o assonanti non importa perché esse attraversano come le altre l’aria e cominciano a giocare insieme ed a volteggiare e quindi a rincorrersi e riprendersi ad abbracciarsi ed allontanarsi fino ad incrociarsi di nuovo e colpire tutto quel che trovano. Immaginate quando le note sono tre a formare un accordo, minore o maggiore. Tre onde, che in realtà sono milioni, possono giocare a coppie o giocare in trio, possono viaggiare da sole ed incontrarsi ancora o a coppie oppure in trio. Tre note insieme hanno cambiato il mondo. Pensate a “Redemption song”, pensate a buona parte dei pezzi famosi dei beatles, oppure pensate a tutti gli anni ’60. Quando poi queste note diventano quattro le combinazioni diventano pressoché infinite. Minore settima, maggiore settima, e tutte le alterazioni che vogliamo. E così via 5 note, 6 insieme cambiano la morfologia dell’universo. La potenza di ogni combinazione unita alla possibilità di associarle tra loro cambia l’universo e lo rende migliore. Quando poi quest combinazioni vengono suonate da più persone la magia è inevitabile. Quando due persone suonano insieme fanno l’amore, creano una atmosfera indescrivibile. Uniscono le loro debolezze e le loro forze, uniscono la loro urgenza rendendola unica e regalandola a chi li ascolta e se queste due persone diventano tre le cose si complicano e la magia si arricchisce di nuove timbriche, nuove visioni, nuove immagini e chi ascolta viene travolto, abbracciato da fasci immensi di note di intervalli, di triadi e di accordi di settima, nona, undicesima e tredicesima. Alterazioni e consonanze, toni e semitoni tutti insieme a formare un’unica spedizione di note che si lancia all’impronta verso una serie di anime pronte ad accoglierle a portarle con se ed a non liberarsene mai.” Questo diceva Indie prima di iniziare il suo concerto. Questo voleva far capire al mondo, questo voleva che la gente sapesse ogni volta che acquistava un disco, oppure ascoltava la radio oppure semplicemente sentiva cantare qualcuno sotto la doccia. La musica va rispettata perché da una forma al mondo. La musica va rispettata perché arricchisce l’ossigeno che respiriamo, la musica va rispettata perché è rappresentazione elettrica della vita di ognuno di noi. La musica va rispettata perché esiste nella natura come esistono gli alberi, gli animali e gli uomini. Si manifesta così, come miliardi e miliardi di miliardi di note che si spezzettano e viaggiano a fasci lasciando tracce di se in giro per il mondo. La musica va rispettata perché grida al mondo la propria esistenza, la musica è l’esistenza. Indie prese in braccio la chitarra e ricordò la prima volta che l’aveva fatto su quel palco. Era il lontano 89 e il primo brano era “Another brick in the wall part I” dei Pink FLoyd. Quindi toccava a lui far partire il brano con il re elettrico con il delay ostinato a segnare l’inizio del suo primo concerto in assoluto. L’emozione era talmente forte che la mano sinistra non riusciva a salire sul manico della Stratocaster che gli avevano prestato. Superare il mi cantino, il si e poi il sol era stato come scalare l’everest. Giunti sul re il concerto partì ed il blocco scomparì completamente fino a trasformarsi in una gioia immensa. La stessa gioia che prova il bambino quando vede lo sguardo della madre e le sorride. Bene quel palco faceva ancora quel meraviglioso effetto. Quel palco faceva ancor si che ogni persona che vi saliva avvertisse quella sensazione di gioia, bambino, madre.

Indossata Mercoledì Indie inizio il suo mantra:respiro, urgenza, cervello, mano, corda, aria, respiro. Respiro perchè c’è bisogno di imprimere forza ed avere ossigeno nei polmoni, urgenza perchè se non c’è è inutile suonare, se non avverti l’urgenza di farlo non te lo ordina nessuno di mettere le mani sullo strumento, cervello perché devi pensare a quello che suoni e trasmetterlo alla mano che dovrà eseguire il gesto, ogni volta come se fosse la prima, ogni volta meglio della precedente, ogni volta con più esperienza della volta precedente. La mano colpisce la corda, quella che hai scelto ed essa vibra fino ad arrivare nuovamente al tuo cervello che ti suggerisce la prossima. Le note viaggiano nell’aria e le respiri ed il ciclo si ripete. Prese fiato ben bene, non poteva sbagliare, quel momento era troppo importante. Indie avvertiva l’urgenza di porre fine a tutto, avvertiva l’urgenza di partorire quelle note anche se fossero state le ultime, avvertiva un’urgenza infinita, non aveva probabilmente mai avvertito quell’urgenza e forse non l’avrebbe avvertita mai più. Il suo cervello gli ordinò un mi minore settima nona in primo manico con molte corde a vuoto ed il fa diesis suonato sul mi cantino con il dito medio. La sua mano sinistra si posizionò e la destra cominciò a coccolare Mercoledì arpeggiando con infinita passione. i primi sei fasci di note partirono dalle corde e parte di essi furono catturati dal pick up della chitarra che li comunicò al jack strumenti che li portò all’interno del pre amplificatore che dopo avere digerito quella intensità sonora disse al finale che era ora di propagare i fasci verso la platea. Il finale non attese un attimo e fece vibrare il cono dell’amplificatore che con immenso piacere comunicò alla platea il mi minore settima nona di Indie. Non appena queste note uscirono fuori ed investirono la sala altre note erano già pronte in coda a seguire lo stesso iter delle precedenti e si avviarono. Erano le note di un la minore nona. Indie amava gli accordi di nona. e così come in ciclo infinito ricominciò la sequenza. Le onde investivano la sala e spostavano quasi fisicamente gli spettatori increduli di tanta potenza scatenata da una cosa per niente violenta. Un arpeggio di norma non dovrebbe essere così violento, ma in quel caso la gente veniva spostata da quelle note come se fossero suonate a volumi assurdi pur non essendone infastidite. Indie li stava conducendo con la sua musica su di una barca in mezzo al mare ed il mare era in tempesta.

I brani di Indie non avevano un titolo. Il titolo lo scriveva solo dopo aver ascoltato. Dipendeva da quello che la musica gli avrebbe detto in quel momento. Forse quel fluttuare gli faceva pensare ad un naufragio e quel brano si sarebbe chiamato molto probabilmente “Il Naufragio” o “Castaway” chissà, ma quella era la sensazione.

“In questo naufragio vi ho visto fluttuare, grazie davvero” disse Indie mentre il pubblico applaudiva compiaciuto. Poi lanciò uno sguardo verso il fondo della sala per verificare se Fly fosse arrivata, ma nulla, non vedeva nemmeno Libera tra il pubblico e questo da un lato lo tranquillizzava e dall’altro lo agitava non poco. Pensò che forse si erano incontrate fuori e stavano litigando, oppure semplicemente era un film che si era creato al momento e probabilmente Libera era fuori a bere e Fly non era ancora venuta. C’era tempo per un altro brano all’impronta. “E perché no adesso suoniamo l’autunno” disse usando il plurale maiestatis. L’autunno quella sera suonava in Sim con diverse alterazioni ed il basso passava da si a Sol arpeggiando molto velocemente le corde di Mercoledì. Cominciarono a cadere foglie nella sala e tutto si colorò di autunno. Il pubblico cominciò a camminare sulle foglie croccanti e si divertiva a scalciarle per farle rivolare ancora un po’. I platani che erano comparsi ai bordi della sala facevano da contorno e facevano ombra sul pubblico. Poi all’improvviso la pioggia scandita dall’arpeggio sempre più veloce e tutti si bagnavano ed aumentava il divertimento. I fasci di note arrivavano nel cielo improvvisato e scagliavano fulmini e tuoni innoqui sulla gente che si caricava e trasferiva energia al prossimo restituendone a Indie la parte necessaria per continuare. Poi smetteva di piovere ed un pallido sole si affacciava tra le foglie ed illuminava tutti e come un gigantesco phon il vento asciugava tutti i presenti che felici di quest’altra meravigliosa esperienza ritornavano ai propri posti ad applaudire. Questo brano era “Rain” per Indie in quel momento. Era Rain, il suo autunno per quel momento irripetibile. “Grazie per aver condiviso l’autunno con me ragazzi, è stato meraviglioso.” disse Indie e riprese fiato.

Professionalmente un musicista tende sempre a non far passare troppo tempo tra un brano ed un altro di un concerto, in quanto questa cosa potrebbe significare indecisione, mancanza di esperienza ed incertezza. Ma Indie era stanco e provato da queste due esecuzioni che l’avevano fatto dapprima naufragare e poi bagnare insieme agli altri sotto una fitta pioggia. La natura che si stava manifestando in quel concerto aveva chiuso fuori il mondo. Fuori dal circolo non esisteva più nulla. Tutto il mondo, tutta la vita, tutto era racchiuso nel circolo. Tutto era racchiuso nel tutto di quella splendida esibizione, di quel concerto irripetibile. Prese fiato e di nuovo recitò il mantra per iniziare un tecnicismo strano in tredici ottavi in do maggiore. Come quando in una discussione mille cose vengono messe sul piatto e nessuna di queste confluisce in una soluzione, così gli intrecci in tempi dispari di indie non trovavano pace in quel brano. Un brano molto difficile da seguire e da eseguire. Ma indie ormai era nel mood e la gente cominciò a quel punto a discutere insieme al brano. Nessuno sembrava d’accordo con l’altro e nessuna opinione veniva rispettata, poi piano piano qualche mediazione dettata da qualche misura in quattro quarti riusciva a far planare alcuni discorsi su dati di fatto più concreti quasi come un mi minore. Questo vociare tendeva poi ad un cambio di rotta repentino scandito da due serie di armonici netti che portarono il silenzio in sala e ad una discussione convergente che trovava tutti d’accordo. All’improvviso tutti parlavano la stessa lingua ed andavano pienamente d’accordo su tutto. Il quattro quarti in sol aveva messo d’accordo tutti e tutte le opinioni venivano rispettate come in una società ideale. Era il racconto dei punti di vista in cui dopo la lite si converge tutti verso un compromesso. Indie credeva che il compromesso fosse la misura del benessere apparente. Più ci si metteva d’accordo e più si andavano a limare le proprie e le altrui opinioni fino a giungere ad una opinione che apparentemente era comune, ma in realtà era solo la storpiatura delle opinioni originali. Indie odiava quei discutibili compromessi. Prese nuovamente la parola ed in maniera abbastanza presuntuosa disse “volete ancora qualcosa?” ed il pubblico esplose con un “siii”. Un Mi maggiore cominciò a far intuire una danza. Disegnò davanti a se le figure senza volto e senza sesso della Dance II di Henry Matisse, quadro da lui amato, e gli accordi andarono lisci senza problemi. Tutti i presenti cominciarono a ballare formando dei cerchi e saltando sorridevano e si tenevano per mano. Felici per una volta tutti insieme, tutti uguali, senza volto e senza sesso, senza differenze, uniti da una sola cosa, quella danza ipnotica. Fuori era sparito tutto per cui se Fly fosse arrivata doveva essere per forza lì. Fuori non c’era più nulla. Il circolo era diventato tutto, un tutto pieno di vite e di speranze, pieno di musica e di entità che si tenevano per mano. Pieno di anime danzanti felici per una volta tutte d’accordo, tutte guidate da quella serie di accordi nella tonalità semplice di Mi maggiore. Si semplice come la libertà della danza, semplice come un mi maggiore su di una qualsiasi chitarra. Danzavano tutti e danzava anche Mercoledì. Danzava il palco, il mixer, danzava Benny, e danzava il bancone. Danzavano le anime in pena e quelle felici. Danzavano i muri del circolo che cominciò a roteare su se stesso sollevandosi dall’asfalto e dal marciapiedi. Danzava la città ed il nulla che c’era intorno, danzava la zona orientale. Tutti si tenevano per mano e contemporaneamente si lasciavano e portavano le braccia in alto e poi di nuovo, sempre girando in cerchi a volte concentrici, si ricongiungevano prendendosi per mano e nuovamente su e poi giù. Queste scene facevano venire in mente ad Indie canti e danze popolari, donne che giravano su se stesse agitando le lunghe gonne a colori. Il suo momento era arrivato ed il livello che aveva raggiunto era quello sperato. Indie suonava il mondo ed il mondo si muoveva con lui e con la sua musica. Questo era quello che aveva sempre sperato. Voleva essere il dominatore delle onde sonore e ci era riuscito aveva trovato un elemento nuovo e lo dominava, lo governava con la sola forza del pensiero. Meravigliosamente il circolo rallentò e con esso il mondo e quindi Mercoledì portò esausta la danza verso il finale. Cinque minuti di applausi e grida dal pubblico. Indie in piedi commosso da tanta felicità della gente, della sua gente che ormai portava addosso le particelle della sua musica. Ormai la gente avrebbe portato una volta fuori di li la sua musica addosso e non se ne sarebbe liberata più. Anche Indie si sentiva arricchito e viveva quella come la serata più bella della sua vita in assoluto. Lanciò un altro sguardo lontano sul pubblico e finalmente vide la testa di Fly da lontano che pian piano si avvicinava verso il palco. Decise di iniziare nuovamente a suonare e scelse un accordo dolcissimo, un do minore nona suonato per lei, che sembrò fermare il tempo. Un accordo meraviglioso che bloccò le persone in sala. Indie si rese conto di riuscire a dominare tutti con le sue note e con le corde di Mercoledì. Allora cominciò a fare delle prove. Smetteva immediatamente di suonare e tutti si fermavano contemporaneamente e quindi li guardava negli occhi, ma gli sembrava che fossero tutti ipnotizzati, poi riprendeva e tutti riprendevano a muoversi. Solo Fly continuava la sua lenta avanzata e così Libera dal fondo della sala. Erano le uniche due che non riusciva a fermare, nè controllare in nessun modo con la sua musica. Tutti obbedivano alla sua musica, tutti obbedivano alle sue note, ma Fly e Libera no. Avanzavano e nel frattempo quella distanza sembrava per loro e per Indie incolmabile. Intanto il suo do minore si era trasformato in un sol minore settima nona ed un fluido azzurro pervase la sala come un magma vulcanico. Investì tutti che non sembrarono disturbati dalla cosa. Investì e ritardò ancora il passo di Fly e Libera, ma non le fermò. La sua musica era diventata un’arma di difesa. Lanciava note per ritardare il momento in cui Fly prima e Libera dopo sarebbero arrivate a lui. Non sapeva esattamente perché ma quella cosa gli faceva paura. Gli metteva ansia il pensiero di essere raggiunto sul palco e magari di essere interrotto dalla loro presenza. Allora per questo continuò a suonare sempre più forte generando eventi, movimenti, ed azioni che impedissero o meglio ritardassero quel momento che sicuramente sarebbe stato di scontro. Indie era consapevole che la più bella serata della sua vita poteva trasformarsi in qualcosa di più memorabile. Cominciò a credere che tutta quell’energia prima o poi sarebbe finita o meglio si sarebbe trasformata e che il momento di affrontare quella situazione sarebbe arrivato. Il brano volgeva al termine ed Indie vide che la gente cominciò ad indietreggiare mentre Fly e Libera erano quasi allineate di fianco ed ormai di fronte a lui sul palco. Nessuna fuga, nessuna arma, nessuna scusa, nessun movimento di nessun genere poteva evitare l’affronto della verità.

[^]

Cap.29 – La Verità

Che grande parola “verità”. Chi può affermare di possederla. Chi al mondo può dire io conosco la verità. chi al mondo può semplicemente permettersi di professarla. Chi è quell’uomo o quella donna che possano oggi dire “la verità è questa” oppure che il mondo è questo e che funziona così. Il fatto stesso di avere la pretesa e la presunzione di poter affermare di conoscere la verità ci mette sulla cattiva strada se non in una cattiva luce. Indie non conosceva la verità, in realtà non capiva bene nemmeno quello che stava accadendo, ma forse in quella sala era l’unico ancora a non aver capito che cosa stava per succedere. In quella sala Indie era l’unico all’oscuro della situazione. Libera e Fly di fronte a lui, una sorridente e l’altra in lacrime lo guardavano da sotto al palco e lui cercava di evitare gli sguardi. Ma quanto ancora poteva scappare. Quanto ancora poteva reggere quella fuga dagli occhi. Quanto tempo ancora non voleva capire la sua verità. Quanto ancora doveva succedere affinchè egli cominciasse a vedere ed a capire. Erano tutti fermi ed Indie capì che il suo discorso tanto atteso doveva cominciare. Questo però doveva avvenire con Libera alla sua sinistra e Fly alla sua destra e lui al centro del palco. Fece segno a loro di salire e si posizionarono verso il pubblico.

“La verità è una tazza di veleno” diceva Zia Giulia. Queste parole risuonavano nella mente di Indie e quanto erano vere!! “La verità è una tazza di veleno e va bevuta tutta intera” pensava Indie. Cercò di riportare alla mente il giorno in cui zia Giulia gli avesse detto quella cosa. La mente al momento era particolarmente offuscata da quella situazione, ma doveva assolutamente fare uno sforzo per capire prima di cominciare a parlare. I suoi ricordi avevano quasi timore di venir fuori come se qualcosa di terribile li attendesse. I suoi ricordi volevano proteggersi e proteggere Indie per cui faticavano a farsi avanti. Doveva fare uno sforzo sovraumano per tirare fuori qualcosa in quel momento. Quelli erano i ricordi che facevano male, ma bisognava assolutamente rispolverarli per riuscire a capire quella situazione. Indie si comportava come se non avesse scelta ed ogni gesto ormai non sembrava più il suo. “Mi ricordo che un bel giorno incontrai zia Giulia a casa che mi aspettava come al solito seduta di fianco alla finestra in attesa di chissà quale grande evento. Zia Giulia guardava fuori spesso ed ogni tanto dava un’occhiata alla televisione. Guardava fuori forse perchè aspettava quell’uomo che non aveva mai avuto e che non sarebbe mai arrivato. Aspettava la persona che l’avrebbe presa e portata via senza cavallo bianco. Mi raccontava che l’uomo con cui aveva una relazione da giovane non poteva diventare il suo uomo perché era di una famiglia importante del paese e quindi non si poteva mischiare nobiltade e popolo. POichè non potè esser lui, non potè essere nessuno e zia Giulia era rimasta fedele a lui per tutta la vita. Magari lo attendeva lì fuori alla finestra sperando che un giorno potesse venire a prenderla e coronare il sogno di una vita. Ma zia GIulia sapeva benissimo che non era possibile e che il suo lui non sarebbe più arrivato. Forse un giorno l’avrebbe incontrato dall’altra parte, come amava chiamarla lei. Quel giorno zia mi raccontò che a Maiori, paese ridente della costiera amalfitana, dove abitava lei da giovane, viveva in una casa che affacciava su di un patio che al centro aveva una fontana. Prima del 1933, anno in cui si dice che il papa fece una scomunica alle streghe, succedeva spesso di assistere a situazioni paranormali. In quegli anni per esempio capitava spesso di vedere di notte una signora che si recava alla fontana al centro del patio a raccogliere dell’acqua per il suo giardino. Ma la signora era risaputo che fosse morta ormai da tanto tempo. Una storia invece che mi spaventava particolarmente” continuava Indie “fu quando mi raccontò di una signora del paese che in vita era ossessionata dai suoi capelli. Dovevano essere sempre perfetti, mai uno fuori posto e spendeva fortune dal parrucchiere affinchè glieli tenesse sempre in perfetta forma. Un giorno maledetto la signora uscì in montagna con un bel giovane che, preso da un attacco di gelosia, la buttò giù da una scarpata con tanta violenza e nel cadere, e quindi nel morire, inciampando tra i rami degli alberi, le si strapparono i capelli dalla testa. Bene, anzi male, ogni notte la signora, dopo morta, andava a bussare alle case della gente perché rivoleva i suoi capelli. Questa era la storia che mi colpì di più perchè quella storia raccontava di un amore, ed in quel caso, di una ossessione che durava anche oltre la vita.” Gli venne in mente anche quel brano meraviglioso dei Birds “I come and stand at every door” rifatto meravigliosamente da This Mortal Coil in cui il testo recita “…I’m only seven although I’ve died, in hiroshima long ago….. I’m seven now as I was then, when children die they do not grow..” un bambino di sette anni morto ad hiroshima che viene e bussa ad ogni porta perchè spera che ai bambini del mondo venga data l’opportunità che a lui non fu data “all that I ask is that for peace…. so let the children of this world may live and grow and laugh and play..” così lasciate che i bambini di questo mondo possano vivere crescere, ridere e giocare. “Un desiderio di vita e di pace anche dopo la morte questo voleva insegnarmi mia zia giulia dicendomi che la verità è una tazza di veleno, perché la verità ti costringe ad accettare la tua vera natura e che se non riuiscirai a farlo in vita, la cercherai dopo la morte.” Indie si ricordò che quel giorno zia Giulia era particolarmente arrabbiata con lui perchè lo vedeva andare in giro con un motorino, senza casco ed abbastanza malandato.”Tu non mi devi far preoccupare, perché finire sotto ad una macchina è una fine misera e tu non la meriti”. Indie sorrideva a quel pensiero e sistematicamente ripensava a quel motorino. Ma come gli succedeva ormai da qualche tempo all’improvviso si assentava con la mente. Quei ricordi ed in particolare quel ricordo gli fece male. Cercò di andare più a fondo e pensò “devo ricordare cosa successe poi..” Scavò ancora un pò nella sua mente ormai quasi del tutto assente e giunse al momento in cui salutò zia Giulia scese le scale e si avviò verso il portone. Il desiderio di vivere le cose in cui credi, il desiderio di assecondare il tuo cervello alle tue grandi passioni, la fievolezza con cui le vocine della vita standard arrivano al tuo orecchio non può essere paragonata al caos che una nota può creare all’interno di una persona. Indie voleva vivere la sua vita così, seguendo infinitamente e pienamente le sue passioni. Scavò ancora nel ricordo e si rese conto che all’improvviso come in una strada che finisce, senza uscita, trovò un burrone davanti a sè. Un burrone nei suoi ricordi. Tutto spento intorno e lui sospeso in aria. Niente più, niente zia giulia, e niente città. Una sospensione in volo ed il buio intorno e niente più. Questo ricordo gli faceva sempre più male ma quel buio gli accendeva una luce nella mente. Cominciò a capire cosa stava accadendo. La luce di cui erano colorate le persone che incontrava, la luce che illuminava i suoi pensieri, i suoi viaggi, le sue note diventava sempre più chiara e forte. LIbera e Fly di fianco a lui e Indie al centro accecato dalla luce della sua mente. “Ragazzi” continuò “ora credo di aver capito. Per questo motivo il mio discorso si ridurrà ad un grande ed unico concetto che spero vogliate seguire. “Siate voi stessi”, in tutto e per tutto nella vostra vita, perché non ne avete un’altra e perché questa è troppo breve per essere vissuta con superficialità. Siate voi stessi perché il tempo è tiranno e porta via tutte le cose. Oggi avrei voluto parlarvi di tantissime cose, ma in realtà quelle cose le abbiamo vissute insieme in questa sala mentre suonavamo e vibravamo tutti. Non c’è bisogno che io dica altro oltre il fatto che se avete una passione seguitela e lasciatevi trasportare ogni giorno. Ogni giorno potrebbe essere l’ultimo, oppure il giorno prima dell’ultimo, ma è un giorno. Ed un giorno corre veloce, vi scappa di mano e vi lascia lì da soli in una stanza buia e privi di sensi. Siate voi stessi, sempre e comunque. Vivete quello che avete dentro e non ascoltate nessun altro se non le particelle che sono rimaste attaccate al vostro dna.” Mentre diceva questo la luce si faceva più forte e Indie pià debole. Udiva dei sospiri nel suo orecchio destro: “Indie, forza, ti prego, forza” ma non capiva chi glielo stesse dicendo. Libera sorridente ed alla sua sinistra., Fly disperata alla sua destra. Indie nel mezzo e senza forze attirato da Libera come un ferro alla calamita. Distrutto e disperato continuava il suo discorso: “non fatevi fregare ragazzi, prendetevi la vostra vita.. perché dura poco.., datevi da fare con i vostri sogni e non fate che restino soltanto tali. Siate indipendenti, siate indie come me, in tutte le cose e cercate di ascoltarvi sempre. Quando il cervello vi mostra un mondo, penetratelo, quando una via si biforca percorrete quella che vi sembra più difficile. Non fermatevi ai segnali, non li avete messi voi. Non fermatemi ai sensi unici ai semafori della vostra mente. Non fermatevi e basta. Portate sulla vostra testa i vostri sogni, trascinateli nelle terre che vedete la sera quando vi appoggiate sul cuscino prima di dormire o quando vi chiudete in una stanza a chiave perchè siete disperati. Trascinate i vostri sogni in ogni punto delle vostre terre ed adorateli come se fossero dei. Non state a sentire per forza quelli che vi dicono che la vita va così e quindi va vissuta come la vivono gli altri. Siamo tutti uguali, ma nessuno è come voi. Questo vi volevo dire: “Siamo tutti uguali, ma nessuno è come voi” Unico, irripetibile, organizzato nella totale improvvisazione degli atomi delle cellule dei tessuti degli elettroni. Nessuno è come voi e ripetetevelo sempre davanti ai vostri specchi ed innanzi a questi cacciate via l’estraneo che vedete ogni mattina. Sostituite l’estraneo che vedete ogni mattina davanti allo specchio con la versione vera di voi. Posizionate la verità la vostra verità, davanti allo specchio. Siate voi stessi in quanto siete unici ed irripetibili. Trascinate i vostri sogni ai concerti, al teatro al cinema. Trascinate i vostri sogni nei libri che leggete o che scrivete. Trascinateli nei vostri luoghi di culto e di religione, di letteratura, di cultura e di pace. Trascinate i vostri sogni nei vostri luoghi di guerra ed amore. Trascinate i vostri sogni nei luoghi del silenzio e della morte.” Indie era stremato e distrutto dalle sue parole. Si rendeva conto che stava venendo fuori tutto quello che credeva davvero. “Date alla vostra vita un significato, uno spessore, non fate in modo che gli altri ve la pianifichino, costruiscano oppure la vivano al posto vostro. Date un senso a tutte le cose che fate, date un significato ad ogni nota che suonate. Siate indipendenti e siate Indie come me. Non perdete tempo nemmeno ad ascoltare me. Correte a casa, per chi una casa ce l’ha e prendete il vostro strumento. Suonate quello che vi va, prendete una penna e scrivete quello che vi va. Sono tutte tracce, testimonianze, definizioni della vostra vita. Teoremi ed assiomi che dimostrano la vostra unica ed irripetibile esistenza. Siamo tutti uguali, ma nessuno è come voi. Ripetetelo e costruitevi il vostro unico ed irripetibile mantra personale.” Ormai respirava a fatica. Indie era stanco, ma felice, felice di aver mostrato la sua anima alle persone che aveva difronte. La sua vera anima. Mentre diceva di sostituire la persona che vedevano allo specchio ogni mattina in realtà stava ammazzando la sua. Viveva quello che stava dicendo a tutti di vivere. Viveva la condizione delle sue parole della sua verità. Unica ed irripetibile come lui. Unica ed irripetibile come il dna delle piante, di ogni pianta, di ogni essere vivente. Unica ed irripetibile come ogni nota suonata da Mercoledì e da tutte le mercoledì del mondo. Unica ed irripetibile come lo sguardo delle persone che ti amano. Unica ed irripetibile come i sogni di una notte meravigliosa. Unica ed irripetibile come ogni notte, come ogni luna e sfera di sole. Indie viveva le sue stesse parole. Indie viveva la sua ormai debole stazza, indie viveva la sua stessa indipendenza mentre se ne stava per liberare per sempre. Liberare era il verbo giusto in quanto alla sua sinistra Libera stava per portarlo via da li. Da tutto, si, da tutto. Indie era stanco e stremato e come ogni volta che stava male e stava per cadere c’era Libera lì a recuperarlo, ma non per riportarlo in piedi, ma per capire se fosse giunto il momento della fine. Fly in lacrime alla sua destra sapeva che aveva fatto di tutto per tenerlo su, ma contro Libera c’è poco da fare. Seppur ormai distrutto Indie proseguì:”Siate voi stessi mi raccomando, date il vostro cuore ai vostri sogni ed alle vostre passioni. Datevi ai vostri gesti e vivete ogni singolo piccolo momento con amore. Descrivete ogni singolo movimento del vostro corpo come un atto d’amore verso il tutto. Unitevi alla natura e riconoscetevi in essa. Datevi alla natura e la natura vi accoglierà. Datevi come mi sono dato io. Datevi definitivamente. Questo è il mio ultimo avviso di verità, la mia missione di dirvi di essere indipendenti è finita.” Non più una parola, non più un respiro. Luci basse Indie nelle braccia di Libera, che felice lo portò via con se, finalmente.

[^]

Cap.30 – Ad libitum

In un attimo gli passò tutta la sua vita davanti, o quello che aveva fatto diventare “la sua vita” così speciale. Così unica e così diversa. La sua “vita” era stata straordinaria ed unica. Gli passava davanti come un film girato al doppio della velocità con la grana tipica di un film in bianco e nero dei primi anni del cinema. Vedeva passare le sue cose e le sue persone e le sue terre senza potersi aggrappare a nessuna di esse. Erano troppo veloci e lui troppo immobile per poterle afferrare. Vedeva passare zia Giulia ed i suoi fantastici suggerimenti e consigli di vita, vedeva passare il suo motorino sfrecciare senza nessuno sopra, vedeva sfrecciare le sue note ancora e vedeva ballare il palazzo del circolo intero. Vedeva il lungomare della sua città scorrere velocemente come se fosse in macchina e vedeva i gabbiani ritirarsi. Vedeva il centro storico ed i suoi vicoli correre verso il nulla e le strade infilarsi in gallerie inesistenti. Vedeva i suoi profili scomparire con i loro poster improbabili e le loro cassette e cd. Vedeva i bicchieri di rum vuoti ed i suoi amici aggrapparsi al bancone per non essere tirati via. Vedeva il suo pubblico sparire velocemente dalla scena come in un buco spazio temporale. Vedeva la sua mente, la sua adorata mente dare i suoi ultimi colpi elettrici come un televisore che sta per autodistruggersi, vedeva le luci del circolo lampeggiare quasi ad indicare gli ultimi attimi di elettricità residua prima del collasso definitivo.

Mercoledì la sua amata chitarra era lì accanto a lui come in ogni momento difficile o meraviglioso dei suoi giorni. La sua musica era tutta attaccata addosso al dna dei presenti che pian piano sparivano ed era penetrata nei muri del circolo. Tutto era pronto per sparire definitivamente dalla sua mente e tutto era pronto per riunirsi in una sola grande entità. Quello che aveva sempre sperato gli sembrava stesse verificandosi in quell’ultimo istante. Gli passò davanti agli occhi la sua città, i profumi, il centro storico, le persone, i gabbiani, le persone che incontrava e salutava, gli alberi, il meraviglioso vocio delle signore nei vicoli, la musica che usciva dalle stanze del suo mondo, la pioggia ed il mare ed il vento, la costa spettinata e quella addomesticata. Tutto stava per sparire perché tutto non esisteva o non era mai esistito. Indie nelle braccia di Libera, Fly con gli occhi pieni di lacrime. Indie stremato dalla sua stessa mente senza più la forza di combattere, senza più la forza di respirare. Il suo amato mantra risuonava solitario in quel mondo creato ad hoc per ospitare i suoi sogni, le sue amate terre vivevano ormai la sua assenza e ricordavano la sua amata ed adorata presenza. La natura, gli alberi, i colori calavano nel silenzio di un posto desolato, non più abitato dal suo unico inquilino. Indie non abitava più quei posti che aveva così meravigliosamente creato. Quell’istante durò il tempo necessario ad Indie per effettuare il suo estremo saluto.

Libera la sua morte e Fly la sua vita risucchiarono il mondo che Indie aveva creato nella sua mente come in un buco nero. Nulla esisteva più, il circolo, il suo amico fidato Benny, le terre del silenzio, le terre dell’amore, le terre della tenacia, le terre della musica e le terre dei suoi sogni. Nulla più, la sua quinta stagione, la sua natura, la sua porta non superata nelle terre del silenzio. Mercoledì, Benny e Seah, nulla nessuno più e nessuno mai.

Libera la sua morte e Fly la sua vita riportarono Indie alla sua realtà. Libera la sua morte e Fly la sua vita riportarono Indie alla verità che non c’era nessun circolo e nessuna musica che lui avesse mai suonato. Non c’era nessun fall festival e nessuna serata finale Non c’era nulla di tutto ciò nella realtà. Tutto aveva creato Indie nella sua mente, in un letto di ospedale, in una stanza, privo di sensi da mesi, privo di ogni movimento. Il suo cervello aveva partorito la sua storia più bella, la storia che non avrebbe potuto raccontare a nessuno. Una storia libera ed indipendente da ogni filtro della vita reale. Una storia che non poteva essere raccontata, ne cambiata, ne vissuta ne creduta in quanto nessuno la conosceva. Indie conosceva la sua storia e l’avrebbe portata con se nella nuova terra del silenzio quella in cui Libera era la padrona assolta. Libera la sua morte, e Fly la sua vita. L’inesorbile suono del nulla che inghiottisce le storie vere e le storie false. I mondi reali e quelli inventati. La vera termocoppia del mondo quella che crea la differenza di potenziale tra quello che si muove e quello che non si muove più. Fly la sua vita e Libera la sua morte ed il resto non conta. Un gioco di parti, un gioco assurdo. “Vivete la vostra vita e siate voi stessi fino in fondo” diceva Indie nella sua mente, ma nessuno in realtà gli stava di fronte. Nessuno lo ascoltava, nessuno poteva sapere che cosa stesse dicendo. Indie lo stava dicendo a se stesso perché quella vita che voleva non l’aveva potuta vivere e se l’era costruita a sua immagine nella sua mente perché null’altro poteva fare. Dentro di se e fuori il nulla. Come nel circolo e nell’ultima serata del fall festival, tutto si era mosso grazie alla sua musica inascoltabile. Tutto si muoveva a tempo di una musica inesistente. Tutto si era svolto in pochi centrimetri della sua testa. Indie aveva mosso il mondo, ma il mondo non se ne era accorto. Indie aveva costruito un mondo ideale ed il mondo non avrebbe mai potuto saperlo. Indie aveva messo in quel mondo tutte le sue ansie, i sogni, le sue capacità, le sua paure, le sue perversioni ed immaginazioni, i suoi viaggi le sue promesse non mantenute e le sue composizioni all’impronta, ma il mondo non se ne era minimamente accorto. Indie aveva mosso il suo mondo e aveva creato migliaia di altri mondi come in un frattale fatto di infiniti colori. Ognuno diverso dall’altro. Ogni singolo colore con una nuance diversa, ogni singola nota con una timbrica ed un suono diverso. Tutte note uguali ma nessuna come ogni singola nota. Note indipendenti da tutto, create solo dal cervello di chi non vede più nulla, non sente più nulla, non avverte più nulla se non quello che il cervello è in grado di dare. Note mai lanciate come dei giganteschi sos, perché non è detto che Indie volesse tornare alla vita. Indie come ogni cosa in natura, aveva creato un equilibrio per se. Non avendo posto nella realtà, ne aveva creata una per se. Indie viveva la sua realtà e le sue terre in perfetta armonia con il resto, in modo del tutto parallelo, coesistente e biocompatibile. Indie aveva rispetto della natura nella vita come nella morte.

La terra degli Indie è piena. La terra degli Indie è stracolma di vite non vissute. La terra degli Indie deborda, trabocca. La terra degli Indie è sommersa da un mondo che non vede non sente non parla. La terra degli Indie è invisibile agli occhi delle altre terre perchè è piena di storie che non si possono ascoltare, che nessuno potrà mai leggere o commentare. I racconti di questa terra sono invisibili agli occhi di chi non sa guardare. Quello che resta di quei fasci di musica pura che indie aveva creato nella sua mente riesce però ancora a lasciare traccia di se. Quelle note seppur stanche si aggrappano al dna del mondo e cercano di rimanerci più tempo possibile affinchè qualcuno le ricordi. Affinchè qualcuno un giorno possa raccontarle descriverle e creare una terra delle note. Una terra che possa in qualche modo raccontare le terre dei racconti mai sentiti. L’immaginazione del mondo, la composizione, l’improvvisazione e la passione sono le tecniche più adatte a ricordare quelle storie, quelle vite non vissute. Il mondo si ostina a raccontare quello che vede e non lascia nulla per ciò che non si vede. Il mondo si ostina a restare al sicuro tra le cose che la società crea per ognuno, ma il mondo non crea più. “Siamo tutti uguali, ma nessuno è come voi” diceva indie proclamando l’indipendenza di ogni essere umano. Proclamando ogni uomo di fronte al proprio specchio fino ad affermare che quello che vediamo nello specchio non ci rappresenta davvero. “Sostituite l’uomo che avete di fronte ogni mattina nello specchio” diceva Indie. “Quell’essere vivente non siamo noi. E’ un’immagine residua di noi”

Fly, la sua vita e Libera, la sua morte avevano portato Indie “dall’altra parte” come amava definirla zia Giulia. Indie non immaginava quanto potesse durare ancora quel suo sopravvivere della mente, ma cercò di vivere intensamente anche quell’agonia, anch’essa unica ed irripetibile. Indie era indipendente in tutte le sue cose, anche nell’agonia. Indipendente come la durata del punto coronato alla fine di una composizione. Un accordo finale che dura a piacere, al piacere di chi lo esegue, indipendentemente da tutto, anche dalla morte.

FINE

Lascia un commento

Il tuo indirizzo email non sarà pubblicato. I campi obbligatori sono contrassegnati *

Time limit is exhausted. Please reload CAPTCHA.